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Dante Alighieri
(✶1265   †1321)

Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 22 maggio e il 13 giugno 1265 – Ravenna, 14 settembre 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano.

Il nome "Dante", secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, è un ipocoristico di Durante; nei documenti era seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de Alagheriis, mentre la variante Alighieri si affermò solo con l'avvento di Boccaccio.

È considerato il padre della lingua italiana; la sua fama è dovuta eminentemente alla paternità della Comedìa, divenuta celebre come Divina Commedia e universalmente considerata la più grande opera scritta in italiano e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale. Espressione della cultura medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la Commedia è anche veicolo allegorico della salvezza umana, che si concretizza nel toccare i drammi dei dannati, le pene purgatoriali e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire al lettore uno spaccato di altissima qualità morale ed etica. Importante linguista, teorico politico e filosofo, Dante spaziò all’interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi, e la stessa cultura occidentale (in ogni campo artistico), tanto da essere soprannominato il "Sommo Poeta". Oggi Dante, che trova riposo nella tomba a Ravenna costruita nel 1780 da Camillo Morigia, è diventato uno dei simboli dell'Italia nel mondo, grazie al nome del principale ente della diffusione della lingua italiana, la Società Dante Alighieri, mentre gli studi critici e filologici sono mantenuti vivi dalla Società dantesca.

A partire dal XX secolo e nei primi anni del XXI, l’autore della Commedia è entrato a far parte della cultura di massa italiana anche grazie alla promozione divulgatrice operata da Vittorio Sermonti, mentre l’opera e la figura di Dante hanno ispirato il mondo dei fumetti, dei manga, dei videogiochi e della letteratura straniera.

La data di nascita di Dante non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale datazione è ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell’Inferno, che comincia con il celeberrimo verso "Nel mezzo del cammin di nostra vita". Poiché la metà della vita dell'uomo è, per Dante, il trentacinquesimo anno di vita, e poiché il viaggio immaginario avviene nel 1300, si risalirebbe di conseguenza al 1265. Oltre alle elucubrazioni dei critici, viene in supporto di tale ipotesi un contemporaneo di Dante, lo storico fiorentino Giovanni Villani il quale, nelle sue Istorie fiorentine, riporta che «questo Dante morì in esilio del comune di Firenze in età di circa 56 anni»: una prova che confermerebbe tale idea. Alcuni versi del Paradiso ci dicono, poi, che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno.

Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, di Sabato Santo. Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di un parente ghibellino. Pregna di rimandi classici è la leggenda narrata da Boccaccio ne Il Trattatello in laude di Dante riguardo la nascita del poeta. Secondo il Certaldese, la madre di Dante, poco prima di darlo alla luce, ebbe una visione: sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in mezzo a un vasto prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante appena partorito, e di vedere il bimbo tendere la piccola mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone.

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La famiglia paterna e materna

Dante apparteneva agli Alighieri, una famiglia di secondaria importanza all’interno dell’élite sociale fiorentina che, negli ultimi due secoli, aveva raggiunto una certa agiatezza economica. Benché Dante affermi che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani, il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei, fiorentino vissuto intorno al 1100 e cavaliere nella seconda crociata al seguito dell'imperatore Corrado III. Come sottolinea Arnaldo D'Addario sull'Enciclopedia dantesca, la famiglia degli Alighieri (che prese tale nominativo dalla famiglia della moglie di Cacciaguida) passò da uno status nobiliare meritocratico a uno borghese, agiato ma meno prestigioso sul piano sociale. Il nonno paterno di Dante, Bellincione, infatti, era un popolano, e un popolano sposò la sorella di Dante. Il figlio di Bellincione (e padre di Dante), Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la non gloriosa professione di compsor (cambiavalute), con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia. Era un guelfo ma senza ambizioni politiche: per questo i ghibellini non lo esiliarono dopo la battaglia di Montaperti, come fecero con altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso.

La madre di Dante si chiamava Bella degli Abati, figlia di Durante Scolaro e appartenente a un'importante famiglia ghibellina locale. Il figlio Dante non la citerà mai tra i suoi scritti, col risultato che di lei possediamo pochissime notizie biografiche. Bella morì quando Dante aveva cinque o sei anni, e Alighiero presto si risposò, forse tra il 1275 e il 1278, con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da questo matrimonio nacquero Francesco e Tana Alighieri (Gaetana) e forse anche – ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati – un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi. Si ritiene che a lei alluda Dante in Vita Nova XXIII, 11-12, chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta».

La formazione intellettuale

I primi studi e Brunetto Latini
Della formazione di Dante non si conosce molto. Con ogni probabilità, egli seguì l'iter educativo proprio dell'epoca, che si basava sulla formazione presso un grammatico (conosciuto anche con il nome di doctor puerorum, probabilmente) con il quale apprendere prima i rudimenti linguistici, per poi approdare allo studio delle arti liberali, pilastro dell'educazione medioevale: teologia, filosofia, fisica, astronomia da un lato (Quadrivio); dialettica, grammatica e retorica dall'altro (Trivio). Come si può dedurre da Convivio II, 12, 2-4, l'importanza del latino quale veicolo del sapere era fondamentale per la formazione dello studente, in quanto la ratio studiorum si basava essenzialmente sulla lettura di Cicerone e di Virgilio da un lato, e del latino medievale dall'altro (Arrigo da Settimello, in particolare). L'educazione ufficiale era poi accompagnata dai contatti "informali" con gli stimoli culturali provenienti ora da altolocati ambienti cittadini, ora dal contatto diretto con viaggiatori e mercanti stranieri che importavano, in Toscana, le novità filosofiche e letterarie dei rispettivi Paesi d'origine. Dante ebbe la fortuna di incontrare, negli anni '80, il politico ed erudito fiorentino Ser Brunetto Latini, reduce da un lungo soggiorno in Francia sia come ambasciatore della Repubblica, sia come esiliato politico. L'effettiva influenza di Ser Brunetto sul giovane Dante è stata oggetto di studio da parte di Francesco Mazzoni prima e di Giorgio Inglese poi. Entrambi i filologi, nei loro studi, cercarono di inquadrare l'eredità dell'autore del Tresor sulla formazione intellettuale del giovane concittadino. Dante, da parte sua, ricordò commosso la figura del Latini nella Commedia, rimarcandone l'umanità e l'affetto ricevuto:

«[...] e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uomo s’etterna [...]
»
(Inferno, Canto XV, vv. 82-85)

Da questi versi, Dante espresse chiaramente l'apprezzamento di una letteratura intesa nel suo senso "civico", nell'accezione di utilità civica. La comunità in cui vive il poeta, infatti, ne serberà il ricordo anche dopo la morte di quest'ultimo. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, inoltre, rimarcano l'analogia tra il messaggio dantesco e quello manifestato da Brunetto nel Tresor, come si evince dalla volgarizzazione toscana dell'opera operata da Bono Giamboni.

Lo studio della filosofia
«E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella [la Donna Gentile] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.» (Convivio, 12 7)

Dante, all'indomani della morte dell'amata Beatrice (in un periodo oscillante tra il 1291 e il 1294/1295), cominciò a raffinare la propria cultura filosofica frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella e dai francescani di Santa Croce. Se gli ultimi erano ereditari del pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, i primi erano ereditari della lezione aristotelico-tomista di Tommaso d'Aquino, permettendo a Dante di approfondire (forse grazie all'ascolto diretto del celebre studioso Fra' Remigio de' Girolami) il Filosofo per eccellenza della cultura medievale. Inoltre, la lettura dei commenti di intellettuali che si opponevano all'interpretazione tomista (quali l'arabo Averroè), permise a Dante di adottare una sensibilità «polifonica dell’aristotelismo».

I presunti legami con Bologna e Parigi
Alcuni critici ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove in proposito. Invece è molto probabile che Dante soggiornasse a Bologna tra l'estate del 1286 e quella del 1287 dove conobbe Bartolomeo da Bologna, alla cui interpretazione teologica dell'Empireo Dante in parte aderisce. Riguardo al soggiorno parigino, ci sono invece parecchi dubbi. In un passo del Paradiso (Che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri), Dante alluderebbe alla Rue du Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona. Questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi tra il 1309 e il 1310.

La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti
Dante ebbe inoltre modo di partecipare alla vivace cultura letteraria ruotante intorno alla lirica volgare. Negli anni '60 del XIII secolo, in Toscana giunsero i primi influssi della "Scuola siciliana", movimento poetico sorto intorno alla corte di Federico II di Svevia e che rielaborò le tematiche amorose della lirica provenzale. I letterati toscani, subendo gli influssi delle liriche di Giacomo da Lentini e di Guido delle Colonne, svilupparono una lirica orientata sia verso l'amor cortese, ma anche verso la politica e l'impegno civile. Guittone d'Arezzo e Bonaggiunta Orbicciani, vale a dire i principali esponenti della cosiddetta scuola siculo-toscana, ebbero un seguace nella figura del fiorentino Chiaro Davanzati, il quale importò il nuovo codice poetico all'interno delle mura della sua città. Fu proprio a Firenze, però, che alcuni giovani poeti (capeggiati dal nobile Guido Cavalcanti) espressero il loro dissenso nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani, propugnando al contrario una lirica più dolce e soave: in una parola, formularono il Dolce Stilnovo. Dante si trovò nel pieno di questo dibattito letterario: nelle sue prime opere è evidente il legame (seppur tenue) sia con la poesia toscana di Guittone e di Bonagiunta, sia con quella più schiettamente occitana. Presto, però, il giovane si legò ai dettami della poetica stilnovista, cambiamento favorito dall'amicizia che lo legava al più anziano Cavalcanti.

Il matrimonio con Gemma Donati

Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni nel 1285. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri. Il matrimonio tra i due non dovette essere molto felice, secondo la tradizione raccolta dal Boccaccio e fatta propria poi nell'Ottocento da Vittorio Imbriani. Dante, infatti, non scrisse un solo verso alla moglie, mentre di costei non ci sono pervenute notizie sulla effettiva presenza al fianco del marito durante l'esilio. Comunque sia, l'unione generò tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia, e un possibile quarto, Giovanni. Dei tre certi, Pietro fu giudice a Verona e l'unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in quanto Jacopo scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna.

Impegni politici e militari

Corso Donati, esponente di punta dei Neri, fu acerrimo nemico di Dante, il quale lancerà contro di lui violenti attacchi nei suoi scritti.

Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare, come cavaliere, ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289). Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) quando questi si trovava a Firenze. L'attività politica prese Dante a partire dai primi anni 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel 1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, che escludevano l'antica nobiltà dalla politica e permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte. Dante, in quanto nobile, fu escluso dalla politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti. Dante, pertanto, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali.

L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (Guelfi Neri), e quello invece fautore di una politica moderatamente popolare (Guelfi Bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell'antica nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu), generò una guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei Guelfi Bianchi.

Lo scontro con Bonifacio VIII (1300)
Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito per ridimensionare la potenza dei Guelfi Bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui Neri), Dante riuscì ad ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei Guelfi Neri e sette di quelli Bianchi, compreso Guido Cavalcanti che di lì a poco morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione inutile (i Guelfi Neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria, il posto destinato al loro confino), ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Guelfi Neri stessi, grazie al segreto supporto del cardinale D'Aquasparta. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera sia la diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi, mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze. Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale d'Aquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso Minerbetti e da Corazza da Signa.

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L'inizio dell'esilio (1301-1304)

Carlo di Valois e la caduta dei bianchi
Il beato papa Boccasini, trevigiano, nel suo breve pontificato cercò di riportare la pace all'interno di Firenze, inviando il cardinale Niccolò da Prato come paciere. È l'unico pontefice su cui Dante non proferì alcuna condanna, ma neanche verso il quale manifestò pieno apprezzamento, tanto da non comparire nella Commedia.

Dante si trovava quindi a Roma, sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301, quindi, i conquistatori imposero come podestà Cante Gabrielli da Gubbio. Questi, appartenente alla fazione dei Guelfi Neri della sua città natia, diede inizio a una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'espulsione da Firenze. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, che colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi, il poeta fu condannato, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria.

I tentativi di rientro. La battaglia di Lastra (1304)
Dopo i falliti tentati colpi di mano del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era rifugiato), un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa, però, fu sfortunata: il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Pulciano. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del 1304, del cardinale Niccolò da Prato, legato pontificio di papa Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze), il 20 luglio dello stesso anno i Bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i Neri. Dante, ritenendo corretto aspettare un momento politicamente più favorevole, si schierò contro l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento; pertanto, decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento uomini fra ghibellini e bianchi. Il messaggio profetico ci arriva da Cacciaguida:

«Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch'a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
»
(Paradiso XVII, vv. 67-69)

La prima fase dell'esilio (1304-1310)

Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina
Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca Trevigiana presso Gherardo III da Camino. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo nome), col quale il poeta entrò forse in contatto grazie all'amico comune, il poeta Cino da Pistoia. In Lunigiana (regione in cui giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di negoziare la missione diplomatica per una ipotesi di pace tra i Malaspina e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla (1297-1307). In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Castelnuovo del 6 ottobre del 1306, successo che gli fece guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, ove al termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado Malaspina il Giovane l'elogio del casato:

«[...] e io vi giuro .../ ... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin dispregia.» (Purgatorio VIII, vv. 127-132)

Nel 1307, dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, ove fu ospite dei conti Guidi, conte di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno.

La discesa di Arrigo VII (1310-1313)

Il Ghibellin fuggiasco
Il soggiorno nel casentino durò pochissimo tempo. Infatti, tra il 1308 e il 1310, si può ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e, poi, a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il soggiorno transalpino come già precedentemente esposto. Dante, molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310, dove ebbe la notizia, nel mese di ottobre, della discesa in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII. Dante guardò a quella spedizione con grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine dell'anarchia politica italiana, ma anche la concreta possibilità di rientrare finalmente a Firenze. Infatti, l'imperatore fu salutato dai ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana capeggiata dagli Scaligeri di Verona. Dante, che tra il 1308 e il 1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini il 31 marzo del 1311 e giungendo, sulla base di quanto affermato nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore stesso in un colloquio privato. Non sorprende, pertanto, che Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino:

«E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco
» (Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 173-174)

Il sogno dantesco di una renovatio imperii si infrangerà il 24 agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare, improvvisamente, a Buonconvento. Se già la morte violenta di Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di Rossellino della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi neri), fece crollare le speranze di Dante, la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze.

Gli ultimi anni (1313-1321)

Il soggiorno veronese (1313-1318)
All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a risiedere presso la sua corte di Verona. Dante ebbe già modo, in passato, di risiedere nella città veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari danteschi e poi nella Vita di Dante, ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304, Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore, Alboino, non era in buoni rapporti col poeta. Alla morte di Alboino, nel 1312, divenne suo successore il fratello Cangrande, tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di Dante. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé l'esule fiorentino e i suoi figli, dando loro sicurezza e protezione dai vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso - composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese -, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo Cacciaguida:

«Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra l'altri è più tardo.
[...]
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
»
(Paradiso XVII, vv. 70-75, 85-90)

Il soggiorno ravennate (1318-1321)
Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina. Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella pacifica città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche, come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati, e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo.

La morte e i funerali

L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta. Di ritorno dalla città lagunare, infatti, Dante contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli. La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l’alto monte.

Le spoglie mortali

Le "tombe" di Dante
Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali. Quando, poi, la città di Ravenna passò sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti, infatti, solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava. Il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla. Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile.

Le travagliate vicende dei resti
I resti mortali di Dante furono oggetto di diatribe tra i ravennati e i fiorentini già dopo qualche decennio la sua morte, quando l'autore della Commedia fu "riscoperto" dai suoi concittadini grazie alla propaganda operata da Boccaccio. Se i fiorentini rivendicavano le spoglie in quanto concittadini dello scomparso, i ravennati volevano che rimanessero nel luogo dove il poeta morì, ritenendo che i fiorentini non si meritassero i resti di un uomo che avevano dispregiato in vita. Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze (rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII), i frati francescani tolsero le ossa dal sepolcro realizzato da Pietro Lombardi, nascondendole in un luogo segreto e rendendo poi, di fatto, il monumento del Morigia un cenotafio. Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove si trovavano i resti, decisero di nasconderle in una porta murata dell'attiguo oratorio del quadrarco di Braccioforte. Le spoglie rimasero in quel luogo fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in occasione del VI centenario della nascita del poeta, scoprì casualmente sotto una porta murata una piccola cassetta di legno, recante delle iscrizioni in latino a firma di un certo frate Antonio Santi (1677), le quali riportavano che nella scatola erano contenute le ossa di Dante. Effettivamente, all'interno della cassetta fu ritrovato uno scheletro pressoché integro; si provvide allora a riaprire l'urna nel tempietto del Morigia, che fu trovata vuota, fatte salve tre falangi, che risultarono combaciare con i resti rinvenuti sotto la porta murata, certificandone l'effettiva autenticità. La salma fu ricomposta, esposta per qualche mese in un'urna di cristallo e quindi ritumulata all'interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da un cofano di piombo. Nel sepolcro di Dante, sotto un piccolo altare si trova l'epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio per volere di Guido Novello, ma incisi soltanto nel 1357:

«Iura Monarchiae, Superos Flegetonta, lacusque Lustrando cecini, voluerunt fata quousque. Sed quia pars cessit melioribus hospita castris Auctoremque suum petiit feliciter astris, Hic clauditur Dantes, patriis exterris ab oris, Quem genuit parvi Florentia mater amoris.»
«I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte [gli inferi] visitando cantai finché vollero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, [io] Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore.»

Il vero volto di Dante
Come si può ben vedere dai vari dipinti a lui dedicati, il volto del poeta era assai spigoloso, con la faccia torva e col celeberrimo naso aquilino, come figura nel dipinto di Botticelli posto nella sezione introduttiva. Fu Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, a fornire questa descrizione fisica:

«Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura [...] Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.» (Trattatello in laude di Dante, XX)

Gli studi compiuti dagli antropologi, però, smentirono gran parte della letteratura artistica dantesca nel corso dei secoli. Nel 1921, in occasione del seicentenario della morte di Dante, l'antropologo dell'Università di Bologna Fabio Frassetto fu autorizzato dalle autorità di studiare il cranio del poeta, risultato mancante della mandibola. Nonostante i mezzi dell'epoca e un risultato d'indagine non pienamente soddisfacente, Frassetto può già dedurre che il volto "psicologico" tramandatoci nel corso dei secoli non corrisponde a quello "fisico". Difatti nel 2007, grazie a un team guidato da Giorgio Gruppioni, antropologo sempre dell'Università di Bologna, si riuscì a realizzare un volto i cui tratti somatici corrisponderebbero al 95% a quello reale. Partendo dal cranio ricostruito da Frassetto, il volto reale di Dante è risultato (grazie al contributo del biologo dell'Università di Pisa Francesco Mallegni e dello scultore Gabriele Mallegni), sicuramente non bello ma privo di quel naso aquilino così accentuato dagli artisti d'età rinascimentale, e molto più vicino a quello, risalente pochi anni dopo la morte del poeta, di scuola giottesca.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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