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Dino Campana
(✶1885   †1932)

«Il tempo miserabile consumi / Me, la mia gioia e tutta la speranza
Venga la morte pallida e mi dica / Pàrtiti figlio.»
(Dino Campana, Quaderno)

Dino Carlo Giuseppe Campana (Marradi, 20 agosto 1885 – Scandicci, 1º marzo 1932) è stato un poeta italiano.

Campana nacque a Marradi, un piccolo paese tosco-romagnolo situato nella provincia di Firenze, il 20 agosto del 1885, figlio di Giovanni Campana, insegnante di scuola elementare, poi direttore didattico, descritto come uomo per bene ma di carattere debole e remissivo, e di Francesca Luti, detta Fanny, donna compulsiva e severa, affetta da mania deambulatoria e accesa credente cattolica. La donna era attaccata in modo morboso al figlio Manlio, più giovane di due anni di Dino.

Trascorre l'infanzia in modo apparentemente sereno nel paese natìo ma, a circa quindici anni di età, gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi che non gli impediranno comunque di frequentare i vari cicli di scuola.

Frequenta le elementari a Marradi, poi frequenta la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza. Intraprende gli studi liceali in parte presso il Liceo Torricelli della stessa città, in parte a Carmagnola, in provincia di Torino, presso il regio liceo Baldessano, dove consegue la maturità, nel luglio del 1903.

Quando rientra a Marradi, le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia (soprattutto con la madre) e il paese natio. Per ovviare alla monotonia delle serate marradesi, specie nella stagione invernale, Dino era solito recarsi a Gerbarola, una località poco distante dal borgo, dove con gli abitanti del luogo trascorreva qualche ora mangiando le caldarroste (la castagna è infatti il frutto tipico di Marradi), comunemente appellate con il nome di "bruciate". Questo tipo di svago sembrava avere effetti positivi sui suoi disturbi psichici.

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A diciotto anni, nell'autunno 1903, si iscrive presso l'Università di Bologna, al corso di laurea in Chimica pura e entra, nel gennaio 1904, nella scuola per ufficiali di complemento di Ravenna; non superando l'esame per sergente, viene prosciolto dal servizio e in seguito congedato. L'anno seguente passa alla Facoltà di Chimica farmaceutica a Firenze, ma dopo pochi mesi si trasferisce nuovamente a Bologna.

Campana espresse il suo "male oscuro" con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi ad una vita errabonda. La prima reazione della famiglia e del paese, e poi dell'autorità pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana come segni lampanti della sua pazzia. Ad ogni sua fuga, che si realizzava con viaggi in paesi stranieri dove si dedicava ai mestieri più disparati per sostentarsi, seguiva, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi e per le incertezze dei familiari), il ricovero in manicomio. Inoltre, veniva visto con sospetto per i tratti somatici che venivano giudicati germanici e per l'impeto con cui discuteva di poesia e filosofia.

Internato per la prima volta nel manicomio di Imola, alla fine del 1905, ne tenta una fuga già tra il maggio e il luglio del 1906, per raggiungere la Svizzera e la Francia. Verrà arrestato a Bardonecchia e di nuovo ricoverato ad Imola. Ne uscirà nel 1907, per l'interessamento della famiglia, a cui viene affidato.

Risale intorno al 1907 un viaggio in Argentina, presso una famiglia di lontani parenti emigrati, caldeggiato dagli stessi genitori per liberarlo dal tanto odiato paese natìo e, probabilmente, perché il conflitto con la madre si era fatto ormai insanabile. Dino probabilmente accetta di partire sia per lasciarsi alle spalle le esperienze in manicomio, sia perché affascinato dalla nuova meta.

Il viaggio in America comunque rappresenta un punto particolarmente oscuro della biografia di Campana: se alcuni arrivano a chiamarlo "il poeta dei due mondi", c'è anche chi, invece, come per esempio Ungaretti, sostiene che in America, Campana non ci andò neppure. Numerose sono anche le opinioni sulla datazione del viaggio e sulle modalità ed il tragitto del ritorno.

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L'ipotesi più accreditata è che sia partito nell'autunno 1907 da Genova ed abbia vagabondato per l'Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricompare a Marradi, dove viene arrestato. Dopo un breve internamento al San Salvi di Firenze, riparte per un viaggio in Belgio, ma viene di nuovo arrestato a Bruxelles e viene poi internato nella "maison de santé" di Tournay all'inizio del 1910. Chiede aiuto alla sua famiglia e viene rimandato a Marradi. Vive un periodo più tranquillo; nel 1912-13 si riscrive all'università di Bologna, ma chiede dopo due mesi il trasferimento a Genova. Nel capoluogo emiliano frequenta anche le lezioni della facoltà di lettere e intrattiene rapporti di amicizia con i gruppi di goliardi e con gli appassionati di letteratura della sua età. Proprio sui fogli pubblicati dai goliardi bolognesi escono fra 1912 e 1913 le sue prime prove poetiche, alcune di quelle che in seguito verranno incluse nell'opera maggiore di Campana, i Canti Orfici.

I Canti Orfici

Nel 1913 Campana si reca a Firenze presentandosi nella redazione della rivista "Lacerba" a Giovanni Papini e ad Ardengo Soffici, suo lontano parente, cui consegna il suo manoscritto dal titolo "Il più lungo giorno". Non viene preso in considerazione e il manoscritto va perduto (sarà ritrovato solamente, dopo sessant'anni, nel 1971, dopo la morte di Soffici, tra le sue carte nella casa di Poggio a Caiano, probabilmente nello stesso posto in cui era stato abbandonato e dimenticato). Dopo qualche mese di attesa Campana scende da Marradi a Firenze per riprendersi il suo manoscritto. Papini non lo possiede più e lo manda da Soffici che nega di aver mai avuto il libretto. Il giovane, la cui mente è già labile, si arrabbia e si dispera, poiché aveva consegnato, fidandosi, l'unica copia che aveva realizzato. Scrive e implora insistentemente senza altro risultato che il disprezzo e l'indifferenza di tutto l'ambiente culturale che gravita intorno alle "Giubbe Rosse". Infine, esasperato, minaccia di venire con il coltello per farsi giustizia dell'"infame" Soffici e i suoi soci, che definisce "sciacalli".

A proposito del dissidio tra Campana e l'ambiente letterario fiorentino si leggano le parole che Campana scrive a Papini in una lettera del maggio del 1913: "(...) E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di càncheri che è Firenze e venite qua a Genova: e se siete un uomo d'azione la vita ve lo dirà e se siete artista il mare ve lo dirà. Ma se voi avete un qualsiasi bisogno di creazione non sentite che monta attorno a voi l'energia primordiale di cui inossare i vostri fantasmi? Accademia della Crusca. Accademia dei Lincei. Accademia del mantellaccio: sì, voi siete l'accademia del Mantellaccio; con questo nome ora vi dico in confidenza, io vi chiamo se non rispettate di più l'arte. Mandate via quella redazione che a me sembrano tutti cialtroni. Essi sono ignari del «numero che governa i bei pensieri». La vostra speranza sia fondare l'alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze. Sapete, essendo voi filosofo sono in diritto di dire tutto: del resto vi sarete accorto che sono un'intelligenza superiore alla media. Per finire, il vostro giornale è monotono, molto monotono: l'immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici: come novità: Le cose che fanno la Primavera. In verità vi dico tutte queste cose non fanno la Primavera ma l'inverno. Ma scrivete un po' a Marinetti che è un ingegno superiore, scrivetegli che vi mandi qualche cosa di buono: e finitela colla critica."

Nell'inverno del 1914, convinto di non poter più recuperare il manoscritto, Campana decide di riscrivere tutto affidandosi alla memoria ed ai suoi abbozzi, in pochi mesi, lavorando anche di notte e a costo di un enorme sforzo mentale, riesce a riscrivere il libro, con numerose modifiche e aggiunte. Nella primavera del 1914, Campana riesce finalmente a pubblicare a proprie spese, la raccolta, con il titolo, appunto, di "Canti Orfici", riferimento alla figura mitologica di Orfeo, il primo dei poeti-musicisti. Il 1915 lo trascorre viaggiando senza una meta fissa: Torino, Domodossola, ancora Firenze. Scoppia la prima guerra mondiale: Campana viene esonerato dal servizio militare, ufficialmente per problemi di salute fisica, in realtà perché segnalato ormai come malato psichiatrico grave. Nel 1916 ricerca inutilmente un impiego. Scrive a Emilio Cecchi (che sarà, insieme a Giovanni Boine - che comprese subito l'importanza di Campana recensendo i Canti Orfici nel 1914 su "Plausi e Botte" - e a Giuseppe De Robertis, uno dei suoi pochi estimatori) ed inizia con lo scrittore una breve corrispondenza. A Livorno si scontra con il giornalista Athos Gastone Banti, che scrive su di lui un articolo denigratorio sul quotidiano "Il Telegrafo": si arriva quasi al duello.

Nello stesso anno conosce Sibilla Aleramo, l'autrice del romanzo Una donna ed inizia con lei un'intensa e tumultuosa relazione, che si interromperà all'inizio del 1917, successivamente ad un breve incontro nel Natale 1916 a Marradi.

Esistono testimonianze della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla nel carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore - Lettere 1916-1918. Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo datata 10 giugno 1916, nel quale l'autrice esprime la sua ammirazione per i "Canti Orfici", dichiarando di esserne stata incantata e abbagliata insieme. Sibilla era allora in vacanza nella Villa La Topaia a Borgo San Lorenzo, mentre Campana era in una stazione climatica presso Firenzuola per rimettersi in salute dopo essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro del corpo.

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Ultimi anni e morte

«Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili...»
(Dino Campana, lettera dell'11 aprile 1930 a Bino Binazzi, spedita dal manicomio di Castelpulci)

Nel 1918 Campana viene internato presso l'ospedale psichiatrico situato nella Villa di Castelpulci, presso Scandicci (Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani lo va a trovare per intervistarlo e conferma l'inappellabile diagnosi: ebefrenia, una forma estremamente grave e incurabile di psicosi schizofrenica; tuttavia il poeta sembra essere a suo agio nel manicomio, vivendo una vita tranquilla e, finalmente, sedentaria.

Dino Campana muore in ospedale, sembra per una forma di setticemia, causata dal ferimento con un filo spinato nella zona dello scroto durante un tentativo di fuga, il primo marzo del 1932. La salma è sepolta nel cimitero di San Colombano, nel territorio di Scandicci.

Il 2 marzo, il corpo di Campana viene inumato nel cimitero di San Colombano a Badia a Settimo ma nel 1942, su interessamento di Piero Bargellini, viene data alle spoglie del poeta una sepoltura più dignitosa e la salma trova riposo nella cappella sottostante il campanile della chiesa di San Salvatore. Durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, i tedeschi, in ritirata, fanno saltare con una carica esplosiva il campanile distruggendo nel contempo anche la cappella.

Nel 1946 le ossa del poeta, in seguito ad una cerimonia alla quale partecipano numerosi intellettuali dell'epoca, tra i quali Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Ottone Rosai, Pratolini e altri, vengono collocate all'interno della chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo, raggiungendo così la loro dimora attuale.

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La poetica

La poesia di Campana è una poesia nuova nella quale si amalgamano i suoni, i colori e la musica in potenti bagliori. Il verso è indefinito, l'articolazione espressiva in un certo senso monotona ma nel contempo ricca di immagini molto forti di annientamento e purezza.

Il titolo allude agli inni orfici, genere letterario attestato nell'antica Grecia tra il II e il III secolo d.C. e caratterizzato da una diversa teogonia rispetto a quella classica. Inoltre le preghiere agli dei (in particolare al dio Protogono) sono caratterizzate dagli scongiuri dal male e dalle sciagure.

I temi fondamentali

Uno dei temi maggiori di Campana, che si trova già all'inizio dei "Canti Orfici" nelle prime parti in prosa - La notte e Il viaggio e il ritorno - è quello dell'oscurità tra il sogno e la veglia. Gli aggettivi e gli avverbi ritornano con una ripetitiva insistenza come di chi detta durante un sogno, sogno però interrotto da forti trasalimenti (si veda la poesia "l'invetriata", mirabile spleen baudelairiano).

Nella seconda parte - nel notturno di "Genova", ritornano tutti i miti fondamentali che saranno del Campana successivo: le città portuali, la matrona barbarica, le enormi prostitute, le pianure ventose, la schiava adolescente.

Già nella prosa si nota l'uso dell'iterazione, l'uso drammatico dei superlativi, l'effetto d'eco nelle preposizioni, il ricorrere alle parole chiave che creano una forte scenografia. Del Serra ha esaminato le figure ricorrenti in Campana: anastrofi, adnominationes, tmesi anacolutiche e chiasmiche, catacresi, anastrofe con aprosdoketon.

L'interpretazione della poesia

Nel quindicennio che va dalla sua morte alla fine della seconda guerra mondiale (1932-1945) ed anche in seguito, nel periodo dell'espressionismo e del futurismo, l'interpretazione della poesia di Campana si focalizza sullo spessore della parola apparentemente incontrollata, nascosta in una zona psichica di allucinazione e di rovina.

Nei suoi versi, dove vi sono elementi deboli di controllo e di approssimativa scrittura, si avverte - a parere di molti critici - il vitalismo delle avanguardie del primo decennio del XX secolo; dai suoi versi, per la verità, hanno attinto poeti molto differenti tra di loro, come Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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