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Massimo d'Azeglio
(✶1798   †1866)

I primi anni

Massimo Taparelli d'Azeglio nacque a Torino in via del teatro d'Angennes, l'attuale via Principe Amedeo, dalla nobile famiglia Taparelli di Lagnasco, nell'attuale provincia di Cuneo (la famiglia era imparentata coi Balbo, tra cui si ricordano Prospero e Cesare), già discendente dei più antichi marchesi di Ponzone, feudatari del vercellese e viveronese. Figlio del marchese Cesare Taparelli (1763-1830), noto esponente della Restaurazione sabauda e del cattolicesimo subalpino, e di Cristina Morozzo di Bianzè (1770-1838), fu tenuto a battesimo da Monsignor Giuseppe Morozzo, che sarebbe poi diventato cardinale. I genitori vissero dapprima nel Castello di Azeglio (da cui il nome del marchesato) vicino al Lago di Viverone, ma tutti i loro figli nacquero a Torino.

Dei suoi fratelli più noti alla storia si ricordano Luigi, che sarà consacrato gesuita e cofondatore de La Civiltà Cattolica, e Roberto, che diventerà politico liberale come Massimo, promotore della campagna di emancipazione delle minoranze religiose del Piemonte (Ebrei e Valdesi).

Gli altri cinque fratelli di Massimo morirono prematuramente: Giuseppe Luigi appena nato nel 1796, Melania appena dodicenne di etisia nel 1807, Metilde ventiduenne nel 1813 ed Enrico nel 1824 (un fratello nacque morto).

Per via dell'occupazione napoleonica, Massimo bambino (con la famiglia) fu costretto a vivere per qualche anno a Firenze, dove la domenica mattina si recava in casa della contessa d'Albany per recitarle i versi che lei gli faceva imparare durante la settimana e dove conobbe Vittorio Alfieri, amante della contessa e caro amico del padre.

D'Azeglio stesso racconta un episodio curioso: quando aveva quattro anni Alfieri lo condusse nello studio del pittore François-Xavier Fabre, che usò il piccolo come modello per il Gesù Bambino della Sacra Famiglia cui stava lavorando in quel momento. L'opera andò poi ad ornare una chiesa di Montpellier.

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A Firenze ricevette un'educazione severa: in casa i genitori gli imposero un forte senso del dovere e studiò presso le Scuole Pie di Via Larga.

L'attività artistica e letteraria

Alla fine del 1810, i Taparelli tornarono a Torino, dove Massimo frequentò filosofia all'Università, «che cominciai all'età di circa tredici anni». Il giovane non aveva grande amore per lo studio: seguì i corsi per dovere ma senza brillare, compreso in un'indole vivace e gaudente che caratterizzò la sua giovinezza, riavvicinandolo all'austerità dell'educazione ricevuta solo in epoca più tarda. Il padre, intanto, forgiava nei figli uno spirito forte e pronto per le asperità della vita: «Nostro padre voleva vederci diventar uomini, anche fisicamente parlando». Fu così che li iniziò al fioretto, al nuoto e all'equitazione, e presto li condusse a fare lunghe escursioni nei boschi simulando situazioni militari.

Caduto Napoleone nel 1814, gli austriaci rientrarono in città tra il giubilo generale. Per il papa Pio VII era possibile tornare a Roma, «ed il re volle che gli giungesse quanto più presto si potesse un mi rallegro del capo della Casa di Savoia, nella quale era tradizionale il rispetto al papa. La scelta dell'inviato cadde sulla persona di mio padre; ed era certo impossibile trovare un più vero rappresentante del principio politico come della fede religiosa dei due principi». Massimo accompagnò il padre a Roma, dove entrò in contatto con molti scultori e pittori del tempo: Canova, Thorvaldsen, Rauch, Camuccini, Landi, tanto per fare qualche nome. Oltre ad approfondire quello che rimarrà il principale interesse culturale della propria vita, quello della pittura, si appassionò anche alla musica e alla poesia, conoscendo di persona il commediografo Gherardo de Rossi e il librettista Jacopo Ferretti.

Entrò quindi come allievo ufficiale militare sottotenente di Cavalleria (Reggimento "Reale Piemonte"), sulle orme del padre. Tuttavia, dopo qualche mese, abbandonò la carriera militare per dissensi nei confronti della classe aristocratica, ed entrò nella semplice fanteria (Guardia provinciale) con mansioni di segretariato, presso l'ambasciata sarda di Roma.

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Rientrato a Torino presso la famiglia, cambiò d'un tratto stile di vita, abbandonando i bagordi e dedicandosi interamente allo studio, continuando a dare la precedenza alla pittura, tanto che dormiva «in mezzo ai colori, agli oli, le vernici». Il mutamento fu tuttavia troppo drastico; la salute di d'Azeglio ne risentì, conducendolo a una sorta di esaurimento nervoso. Costretto a un periodo di riposo, cominciò presto a sentire nostalgia dell'ambiente romano, dove sognava di poter riprendere il proprio apprendistato artistico. I genitori acconsentirono allo spostamento, nella speranza di assistere a un miglioramento di Massimo, e fu così che la madre, pur cagionevole di salute, si trasferì con lui e con Enrico a Roma.

I tre dimorarono inizialmente in piazza Colonna. D'Azeglio approfondì gli studi di disegno ma anche quelli letterari e musicali. Scrisse un poema cavalleresco in ottave, due opere teatrali e alcune poesie (odi e sonetti) patriottiche. Il fratello Enrico abbandonò presto Roma per recarsi a Napoli, dove si ammalò gravemente. La madre, molto preoccupata, inviò Massimo nella città partenopea. Enrico si riprese più facilmente e più in fretta del previsto, assistito da un marchese di Macerata amante delle arti e della musica, Domenico Ricci, che il Nostro conobbe nell'occasione, senza più averne notizie fino a quando, nel 1852, il figlio Matteo chiederà la mano di Alessandrina, l'unica figlia di Massimo. Ritornati a Roma, i fratelli d'Azeglio si stabilirono con la madre in una piccola casa di Castel Gandolfo.

D'Azeglio continuò poi la propria attività di pittore e letterato, alternandosi tra i salotti intellettuali di Roma, Firenze e Milano, dove conobbe Giulia, la figlia primogenita di Alessandro Manzoni, sposandola nel maggio 1831 e rimanendone presto vedovo, nel 1834, l'anno stesso in cui era nata Alessandra, la loro unica figlia.

Nel 1828-1829 soggiornò per un certo periodo a Sant'Ambrogio di Torino per dipingere le tavole del libro La Sacra di San Michele illustrata e descritta che pubblicò a Torino nel 1829. A Milano giunse due anni più tardi, dopo la morte del padre. Nella città meneghina riscosse grande successo come pittore. Spiegherà nei Miei ricordi come Milano fosse allora culturalmente e artisticamente molto più vivace di Torino. Il clima ambrosiano si confaceva assai meglio al suo spirito libero: vi trovava «un non so che di abbondante, di ricco, di vivace, di attivo, che metteva buon umore a vederlo». In questo contesto di fioritura delle arti presentò quindi tre dipinti all'Esposizione di Brera, un paesaggio e due soggetti storico-patriottici (La disfida di Barletta e La battaglia di Legnano). Il primo fu acquistato dall'arciduca Ranieri, viceré austriaco, mentre le altre due tele finirono nella prestigiosa collezione del patrizio Alfonso Porro Schiavinati.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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