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Cesare Beccaria
(✶1738   †1794)

Il pensiero

Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau (di cui condivideva l'orientamento deista, sebbene professò sempre il cattolicesimo per tutta la sua vita) e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale).

La natura utilitaristica del pensiero di Beccaria

Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si inserisce nel filone utilitaristico: considera l’utile come movente e metro di valutazione di ogni azione umana.

L’ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone che l’uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d’indagine quello analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l’esperienza è da intendersi in termini fenomenici (approccio sensista).

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La natura umana si svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l’uomo è caratterizzato dall’edonismo. Gli individui possono essere paragonati a dei «fluidi» messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore. L’uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall’idea di infrangere la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni antisociali.

Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e rispettosa della persona umana.

«Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.»

Il rifiuto della pena di morte

«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio»
(Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII)

La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato.

Inoltre essa:
non è un vero deterrente
non è necessaria in tempo di pace

Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù, si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza reiterata. Nei soggetti osservanti, essa può poi apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle istituzioni, anzi lo diminuisce. Anche se la pena assumesse un aspetto deterrente, essa apparirebbe uno strumento troppo dispendioso in quanto dovrebbe essere irrogata spesso per esercitare la dovuta impressione sugli uomini. Suggerisce invece di sostituirla con i lavori forzati, in modo che il reo, ridotto a “bestia di servigio”, fornirà esempio duraturo ed incisivo dell’efficacia della legge, risarcendo la società dai danni provocati; e, così facendo, nel contempo si salvaguarda il valore della vita.

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Questa condizione è assai più potente dell’idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte del corpo la morte dell’anima, il condannato viene annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa l'obiettivo di Beccaria, ma utilizza questo argomento dell'afflittività penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).

Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando l’eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile.

Tale motivazione fu usata da Maximilien de Robespierre (inizialmente avverso alla pena capitale) per chiedere la condanna di Luigi XVI, che invece diede il via ad un uso spropositato della pena di morte, e poi al Terrore, certamente non ammissibile nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.

L'avversione alla tortura

La tortura, “l’infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria per vari motivi:
essa viola la presunzione di innocenza, dato che «un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice».
consiste in un’afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile innocente.
non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l’uomo, stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di terminare la sofferenza.
è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l’innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole.
non porta all’emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività

Beccaria ammette razionalmente l’afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena preventiva, sproporzionata e comunque violenta).

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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