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Giacomo Leopardi
(✶1798   †1837)

La formazione personale

Dal 1809 al 1816 Leopardi si immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo", della durata di sette anni, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerò sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco, l'ebraico e, seppure in modo più sommario, altre lingue (francese, sanscrito, inglese, spagnolo, tedesco e yiddish) e compose, poi, opere di grande impegno ed erudizione. Nel frattempo, nel 1812 cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia del 1813, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, dei versi e le tre tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta).

Iniziò anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi introduttivi e di note tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal greco del 1814 e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre dalla Tipografia Frattini di Recanati nel 1816, la Batracomiomachia nel 1815 e pubblicata su «Lo Spettatore italiano» il 30 novembre 1816, gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo dell'Eneide e la Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano» il 1º giugno 1817.

La conversione letteraria: dall'erudizione al bello

Tra il 1815 e il 1816 si avverte in Leopardi un forte cambiamento frutto di una profonda crisi spirituale che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come Alfieri, Parini, Foscolo e Vincenzo Monti, che servirono a maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo Leopardi inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata nel luglio 1816 ai redattori della rivista milanese in risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno.

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Le malattie

Nel 1815-1816 Leopardi fu colpito da alcuni seri problemi fisici e disagi psicologici che egli attribuì almeno in parte - come la presunta scoliosi - all'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia "gobba") con dolori e conseguenti problemi cardiaci e respiratori, una crescita stentata (pare fosse alto 1 metro e 41 circa, o poco più, in quanto aveva gambe robuste e lunghe, corpo di proporzioni normali, con altezza pari a 1,65 m, ma a causa dell'incurvamento dorsale e cervicale risultava più basso di 20 cm), problemi neurologici alle gambe ed alla vista, ma anche parestesie e mancanza di sensibilità nervosa, oltre a febbri ricorrenti, disturbi disparati e stanchezza continua; nel 1816 Leopardi era convinto di essere sul punto di morire. Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Pietro Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara origine.

L'ipotesi più accreditata è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea della colonna vertebrale. In alternativa viene proposta una malattia genetica ereditaria dovuta alla consanguineità dei genitori, come il rachitismo (unito al tracoma oculare) o una patologia affine alla sindrome di Scheuermann (assieme al diabete con retinopatia).

Sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica, mentre altri sostengono che Leopardi avesse il disturbo bipolare, il che spiega i frequenti cambi di umore nel corso della vita, dall'euforia sfrenata alla disperazione inconsolabile che, pur nella lucida e continua consapevolezza dell'"esistenza come dolore", è possibile ritrovare anche nella sua poesia. Tutto questo rese certo più acuto il suo disagio sociale, anche a causa della sua innata timidezza, facendolo sentire in condizione di iniziale inferiorità nei confronti del mondo e spingendolo ad indagare profondamente il dolore e la condizione umana.

La conversione filosofica: dal bello al vero

Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia nel 1819 quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici.

La teoria del piacere

In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso della sua vita. La maggiore parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero leopardiano in questi termini avviene dal 12 al 25 luglio 1820.

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I mutamenti profondi del 1817

Il 1817 fu per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante.

La corrispondenza con Pietro Giordani
Sempre nel 1817 egli scrisse al classicista Pietro Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, datata 30 aprile 1817, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressivo:

«Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo [...] Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia»

Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo.

Nell'estate 1817 fissa le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà per la prima volta della cugina. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classici e romantici. Leopardi difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo.

Il primo amore
«Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!»
(Il primo amore, v.3)

Nel luglio del 1817 il Leopardi iniziò a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà fino al 1832 le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama. Alla fine del 1817 un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore".

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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