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Giordano Bruno
(✶1548   †1600)

Il ritorno a Londra

A Oxford Giordano Bruno vi tiene alcune lezioni sulle teorie copernicane, ma il suo soggiorno presso quella città dura ben poco. Dagli studi di Frances Yates si apprende che a Oxford non gradirono quelle novità, come testimoniò venti anni dopo, nel 1604, l'arcivescovo di Canterbury George Abbot, che fu presente alle lezioni di Bruno:

«Quell'omiciattolo italiano [...] intraprese il tentativo, tra moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in realtà era la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo.»
(Ciliberto 1996,pp. 50-51)

Le lezioni furono quindi interrotte, ufficialmente per un'accusa di plagio al De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino. Sono anni questi difficili e amari per il filosofo, come traspare dal tono delle introduzioni alle opere immediatamente successive, i dialoghi londinesi: le polemiche accese e i rifiuti sono vissuti da Bruno come una persecuzione, «ingiusti oltraggi», e certo la "fama" che già lo aveva preceduto da Parigi non lo aiutava.

Ritornato a Londra, nonostante il clima avverso, in poco meno di due anni, fra il 1584 e il 1585, Bruno pubblica presso John Charlewood sei opere fra le più importanti della sua produzione: sei opere filosofiche in forma dialogica, i cosiddetti "dialoghi londinesi", o anche "dialoghi italiani", perché tutti in lingua italiana: La cena de le ceneri, De la causa, principio et uno, De l'infinito, universo e mondi, Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiuna dell'Asino cillenico, De gli eroici furori.

La cena de le ceneri

L'opera, dedicata all'ambasciatore francese Michel de Castelnau, presso il quale Bruno era ospite, è divisa in cinque dialoghi, i protagonisti sono quattro e fra questi Teofilo può considerarsi il portavoce dell'autore. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle Ceneri, inviti a cena Teofilo, Bruno stesso, Giovanni Florio, precettore della figlia dell'ambasciatore, un cavaliere e due accedemici luterani di Oxford: i dottori Torquato e Nundinio. Rispondendo alle domande degli altri protagonisti, Teofilo racconta gli eventi che hanno portato all'incontro e lo svolgersi della conversazione avvenuta durante la cena, esponendo così così le teorie del Nolano.

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Bruno elogia e difende la teoria dell'astronomo polacco Niccolò Copernico (1473 – 1543) contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come il teologo Andrea Osiander, che aveva scritto una prefazione denigratoria al De revolutionibus orbium coelestium, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella dell'astronomo.

Per Bruno sono principi vani sostenere l'esistenza del firmamento con le sue stelle fisse, la finitezza dell'universo e che in questo esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il Sole come prima vi si immaginava ferma la Terra. Seguendo la Docta ignorantia del cardinale e umanista Nicola Cusano (1401 – 1464), Bruno sostiene l'infinità dell'universo in quanto effetto di una causa infinita. Bruno è ovviamente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della terra – ma, risponde:

«Se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti»
(La cena de le ceneri: Teofilo: dialogo IV)

Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: ai primi spettano le questioni morali, ai secondi la ricerca della verità. Dunque Bruno traccia qui un confine abbastanza netto fra opere di filosofia naturale e Sacre scritture.

De la causa, principio et uno

I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Bruno lascia da parte l'aspetto teologico della conoscenza di Dio, del quale, come causa della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto aspirare a conoscere Dio solo per per fede. Ciò che interessa a Bruno è invece la filosofia e la contemplazione della natura, la conoscenza della realtà naturale nella quale, come già aveva scritto nel De umbris, possiamo soltanto cogliere le «ombre», il divino «per modo di vestigio».

Riallacciandosi ad antiche tradizioni di pensiero, Bruno elabora una concezione animistica della materia, nella quale l'anima del mondo viene a identificarsi con la sua forma universale, e la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale. L'intelletto è il «principio formale costitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l'anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.

La materia, d'altro canto, non è in sé stessa indifferenziata, un nulla, come hanno sostenuto molti filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele.

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La materia è allora il secondo principio della natura, della quale ogni cosa è formata. Essa è «potenza d'esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l'altro. Ponendosi quindi in contrasto col dualismo aristotelico, Bruno conclude che principio formale e principio materiale benché distinti non possono essere ritenuti separati, perché «il tutto secondo la sostanza è uno».

Discendono da queste considerazioni due elementi fondamentali della filosofia bruniana: uno, tutta la materia è vita e la vita è nella materia, materia infinita; due, Dio non può essere al di fuori della materia semplicemente perché non esiste un "esterno" della materia: Dio è dentro la materia, dentro di noi.

De l'infinito, universo e mondi

Nel De l'infinito, universo e mondi Bruno riprende e arricchisce temi già affrontati nei dialoghi precedenti: la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati»; l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti; la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza: la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori (i pedanti) che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a dipendere da quello che dicono gli altri e pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e con passo più sicuro procedono verso la verità.

Chiaramente un universo eterno, infinitamente esteso, composto di un numero infinito di sistemi solari simili al nostro e sprovvisto di centro sottrae alla Terra, e di conseguenza all'uomo, quel ruolo privilegiato che Terra e uomo hanno nelle religioni giudaico-cristiane all'interno del modello della creazione, creazione che agli occhi del filosofo non ha più senso, perché come già aveva concluso nei due dialoghi precedenti, l'universo è assimilabile a un organismo vivente, dove la vita è insita in una materia infinita che perennemente muta.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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