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Paolo Sarpi
(✶1552   †1623)

Seconda denuncia all'Inquisizione

Nel 1594 si dovette scegliere il nuovo generale dell'Ordine servita, e fra i due principali candidati, Lelio Baglioni e Gabriele Dardano, Sarpi si espresse a favore del primo. Il rancore spinse il Dardano a denunciare Paolo Sarpi al Sant'Uffizio, accusandolo di negare efficacia allo Spirito Santo, di avere rapporti sospetti con ebrei veneziani e allegando una lettera che fra' Paolo gli scrisse anni prima da Roma, nella quale erano contenute «alcune parole in discredito della corte, come che in quella si venisse alle dignità con male arti, e di tenerne esso poco conto, anzi abominarla».

Sarpi, senza nemmeno essere chiamato a Roma per discolparsi, fu subito prosciolto da ogni accusa ma il cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Santori, protettore dell'Ordine e capo del Sant'Uffizio, «mostrò però implacabile indignazione al padre» utilizzando tutta la sua autorità per escludere gli amici del frate «dalli gradi et onori [...] con maniere così strane e fini così bassi, ch'io non ardisco poner i casi che mi sono stati dati in nota, perché troppo gran scandalo arrecherebbono al mondo».

Sarpi continuò i suoi studi mentre non cessavano le rivalità nell'Ordine servita, del quale venne eletto priore, il 1º giugno 1597, Angelo Montorsoli, che morì tre anni dopo, succedendogli così, nel 1601, Gabriele Dardano, accanito avversario del Sarpi. Questi, deciso a uscire dall'Ordine per sottrarsi all'inimicizia dalla quale si sentiva circondato, cercò invano di ottenere un vescovato, prima a Caorle e poi a Nona, in Dalmazia, che però gli vennero rifiutati a causa delle negative informazioni che di lui il Dardano e Ludovico Gagliardi, preposito della casa veneziana dei gesuiti, diedero al papa: essi avrebbero «sentito mormorare alle volte che egli con alcuni facci una scoletta piena d'errori». Non solo: nel Capitolo, il Dardano accusò padre Paolo di portare «una berretta in capo contra una forma che sino sotto Gregorio XIV disse esser proscritta; che portasse le pianelle incavate alla francese, allegando falsamente esserci decreto contrario, con privazioni divote; che nel fine della messa non recitasse lo Salve Regina». Ma Sarpi fu assolto anche da queste accuse.

L'interdetto del papa contro Venezia

La Repubblica veneziana, stretta a nord dall'Impero, in Italia dalla prevalenza spagnola e papale, in Oriente dalla potenza turca, era ormai avviata a quel lungo declino politico ed economico che avrà la sua sanzione alla fine del Settecento. Alla prudente politica dei vecchi patrizi, rassegnati alla compromissione con l'Impero e il papato, si sostituì quella degli innovatori, i cosiddetti «Giovani», decisi a sottrarre la Serenissima all'invadenza ecclesiastica nell'interno e a rilanciarne le fortune commerciali nell'Adriatico, compromesse dal controllo dei porti esercitato dallo Stato pontificio e dalle azioni degli Uscocchi, i pirati cristiani croati appoggiati dall'Impero.

Il 10 gennaio 1604 il Senato veneziano proibì la fondazione di ospedali gestiti da ecclesiastici, di monasteri, chiese e altri luoghi di culto senza autorizzazione preventiva della Signoria; il 26 marzo 1605 un'altra legge proibiva l'alienazione di beni immobili dai laici agli ecclesiastici, già proprietari, pur essendo solo un centesimo della popolazione, di quasi la metà dei beni fondiari della Repubblica, e limitava le competenze del foro ecclesiastico, prevedendo il deferimento ai tribunali civili degli ecclesiastici responsabili di reati di particolare gravità. Avvenne che il canonico vicentino Scipione Saraceno, colpevole di molestie a una nobile parente, e l'aristocratico abate di Nervesa, Marcantonio Brandolini, reo di omicidi e di stupri, fossero incarcerati. Il 10 dicembre 1605 il papa Paolo V emanò due brevi richiedenti l'abrogazione delle due leggi e la consegna al nunzio pontificio dei due ecclesiastici, affinché secondo il diritto canonico fossero giudicati da un tribunale ecclesiastico.

Il nuovo doge Leonardo Donà fece esaminare il 14 gennaio 1606 i due brevi da giuristi e teologi, fra i quali il Sarpi, affinché trovassero modo di controbattere alle richieste della Santa Sede. Il 28 gennaio venne nominato teologo canonista proprio il Sarpi e lo stesso giorno il suo scritto: Consiglio in difesa di due ordinazioni della Serenissima Repubblica, venne inviato al Papa. Il Sarpi difese le ragioni della Repubblica con numerosi scritti: sono di questi mesi la Scrittura sopra la forza e validità delle scomuniche, il Consiglio sul giudicar le colpe di persone ecclesiastiche, la Scrittura intorno all'appellazione al concilio, la Scrittura sull'alienazione dei beni laici agli ecclesiastici e altri ancora, poi raccolti nella sua successiva Istoria dell'interdetto. In quell'opera è contenuta anche la traduzione in italiano, fatta dal Sarpi stesso, del trattato di Jean Gerson sulla validità della scomunica, che fu attaccato dal cardinale Bellarmino, al quale fra' Paolo rispose allora con l'Apologia per le opposizioni del cardinale Bellarmino.

Mentre il frate servita Fulgenzio Micanzio - suo futuro biografo - iniziava a collaborare con Paolo Sarpi, il 6 maggio, dopo che il 17 aprile Paolo V aveva scomunicato il Consiglio veneziano e fulminato con l'interdetto lo Stato veneto, Venezia pubblicò il Protesto del monitorio del pontefice, scritto ancora da Sarpi, nel quale il breve papale Superioribus mensibus è definito «nullo e di nessun valore», mentre impedì la pubblicazione della bolla pontificia.

Obbedendo alle disposizioni del papa, il 9 maggio i gesuiti rifiutarono di celebrare le messe a Venezia e la Repubblica reagì espellendoli insieme con cappuccini e teatini: «partirono la sera alle doi di notte, ciscuno con un Cristo al collo, per mostrare che Cristo partiva con loro. Concorse moltitudine di populo [...] e quando il preposto, che ultimo entrò in barca, dimandò la benedizione al vicario patriarcale [...] si levò una voce in tutto il populo, che in lingua veneziana gridò loro dicendo "Andé in malora!" [...]». A Roma si sperava che l'interdetto provocasse una sollevazione contro i governanti veneziani ma «li gesuiti scacciati, li cappuccini e teatini licenziati, nissun altro ordine partì, li divini uffizi erano celebrati secondo il consueto [...] il senato era unitissimo nelle deliberazioni e le città e populi si conservarono quietissimi nell'obbedienza»

Venezia era alleata, in funzione anti-spagnola, con la Francia, ed era in buoni rapporti con l'Inghilterra e con la Turchia. Fingendosi veneziani, il 10 agosto soldati spagnoli, per provocare la rottura delle relazioni turco-veneziane, sbarcarono a Durazzo, saccheggiandola, ma la provocazione fu facilmente scoperta e i turchi offrirono a Venezia l'appoggio della loro flotta contro il papa e la Spagna. Il 30 ottobre l'Inquisizione intimò a Sarpi di presentarsi a Roma per giustificare le molte cose «temerarie, calunniose, scandalose, sediziose, scismatiche, erronee ed eretiche» contenute nei suoi scritti ma il frate naturalmente si rifiutò. Invano il papa - che il 5 gennaio 1607 aveva scomunicato Sarpi e Micanzio - si dichiarava favorevole a portare guerra a Venezia: la sua unica alleata, la Spagna, minacciata da Francia, Inghilterra e Turchia, non poteva sostenerla in quest'impresa e si giunse così alle trattative diplomatiche, favorite dalla mediazione del cardinale francese François de Joyeuse. Il 21 aprile Venezia rilasciò i due ecclesiastici incarcerati e ritirò il suo Protesto al papa in cambio della revoca dell'interdetto, mentre le leggi promulgate dal Senato veneziano restarono in vigore e i gesuiti non poterono rientrare nella Repubblica.

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L'attentato

In quel tempo Sarpi ricevette la visita dell'ex-luterano ed erudito tedesco Kaspar Schoppe, molto intimo dei segreti affari della Curia romana, il quale gli confidò che «il papa, come gran prencipe, ha longhe le mani, e che per tenersi da lui gravemente offeso non poteva succedergli se non male, e che se sino a quell'ora avesse voluto farlo ammazzare, non gli mancavano mezzi. Ma che il pensiero del papa era averlo vivo nelle mani e farlo levare sin a Venezia e condurlo a Roma, offerendosi egli, quando volesse, di trattare la sua riconciliazione, e con qual onore avesse saputo desiderare; asserendo d'aver in carico anco molte trattazioni co' prencipi alemanni protestanti e la loro conversione».

Lo Schoppe, ambiguo provocatore, intendeva convincere il frate a mettersi nelle mani dell'Inquisizione come miglior partito che il Sarpi potesse prendere, tanto «parvero strane le due proposte di far ammazzare o prender vivo il padre», ma i disegni omicidi erano reali: il 5 ottobre 1607, «circa le 23 ore, ritornando il padre al suo convento di San Marco a Santa Fosca, nel calare la parte del ponte verso le fondamenta, fu assaltato da cinque assassini, parte facendo scorta e parte l'essecuzione, e restò l'innocente padre ferito di tre stilettate, due nel collo et una nella faccia, ch'entrava all'orecchia destra et usciva per apunto a quella vallicella ch'è tra il naso e la destra guancia, non avendo potuto l'assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l'osso, il quale restò piantato e molto storto».

I sicari, fuggendo, trovarono rifugio nella casa del nunzio pontificio e la sera s'imbarcarono per Ravenna, da dove proseguirono per Ancona e di qui raggiunsero Roma. Si conoscono i loro nomi: l'esecutore materiale dell'attentato fu Rodolfo Poma, già mercante veneziano, poi trasferitosi a Napoli e di qui a Roma, dove divenne intimo del cardinale segretario di Stato Scipione Borghese e dello stesso Paolo V. Fu coadiuvato da tre uomini d'arme, tali Alessandro Parrasio, Giovanni da Firenze e Pasquale da Bitonto, mentre «la spia, o guida, fu un prete, Michiel Viti bergamasco, solito offiziare in Santa Trinità di Venezia, che non lasciò dubitare quanti mesi precedessero questo bel effetto prima che fosse mandato alla luce; poi che questo prete la quadragesima antecedente, sotto specie d'aver gusto delle predicazioni del padre maestro Fulgenzio, andava ogni mattina in convento de' servi alla porta del pulpito, che risponde alla parte di dentro, e cortesemente trattava con lui, ricercandolo anco di qualche dubbio di coscienza. E continuò di poi sempre a salutarlo et anco andar in convento a visitarlo, parlandogli sempre di cose spettanti all'anima».

Il pugnale non aveva tuttavia leso organi vitali e il Sarpi riuscì a sopravvivere; il noto chirurgo Girolamo Fabrici d'Acquapendente, che l'operò, disse di non aver mai medicato una ferita più strana, rispondendo allora Sarpi con la famosa espressione: «eppure il mondo vuole che sia data stilo Romanae Curiae». Le conseguenze furono la rottura della mascella e vistose cicatrici nel volto. Il 27 ottobre 1607 il Senato, dichiarando il Sarpi «persona di prestante dottrina, di gran valore e virtù», gli concede una casa in piazza San Marco ove possa risiedere con il Micanzio e altri frati, e una sovvenzione affinché possa acquistare una barca e provvedere alla sua sicurezza personale. Sarpi rifiutò la casa ma si servì da allora di una barca che gli evitasse i pericolosi tragitti a piedi per le calli veneziane.

Poco più di un anno dopo, nel gennaio del 1609, fu sventato un secondo attentato, ordito, sembra su mandato del cardinale Lanfranco Margotti, da due frati serviti, Giovanni Francesco da Perugia e Antonio da Viterbo, i quali, fatta una copia della chiave della camera di Sarpi, «volevano secretamente introdurre nel monasterio due o più sicarii e la notte trucidare l'innocente padre».

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La corrispondenza europea

Sarpi inizia a corrispondere con personalità soprattutto di fede calvinista o gallicana: fra questi ultimi, Jacques Leschassier e Jacques Gillot, che pubblicò nel 1607 gli Actes du concile de Trente en l'an 1562 e 1563, dimostrando le pressioni papali sui vescovi riuniti a concilio, e fra gli altri l'italiano Francesco Castrino, i francesi Jean Hotman de Villiers, Isaac Casaubon, Jacques-Auguste de Thou, Philippe Duplessis-Mornay, i tedeschi Achatius e Christoph von Dohna. Attraverso il dialogo diretto con gli intellettuali europei, Sarpi acquisì «quella straordinaria ampiezza di orizzonti e di interessi, quella solida conoscenza dei problemi dello stato moderno», che gli permise di «arricchire la sua cultura storica, giuridica e scientifica» e lo condusse «a incidere sulla sua posizione religiosa, ad approfondirne la crisi, risolvendola poi con l'accoglimento di nuove prospettive e di nuove idealità; spalancandogli un mondo nuovo, che gli faceva sentire più soffocante, più viziata, la vita italiana».

Incontrò a Venezia nel 1607 l'inglese William Bedell, che riferì di lui e del Micanzio come essi fossero «completamente dalla nostra parte nella sostanza della religione» e, nel 1608, Cristoph von Dohna, inviato dal principe tedesco Cristiano I di Anhalt-Bernburg, e il pastore ginevrino Giovanni Diodati, per valutare la possibilità di introdurre a Venezia la Riforma. La traduzione in lingua italiana, fatta da quest'ultimo, del Nuovo Testamento, viene diffusa a Venezia proprio in questo periodo.

Altre polemiche suscitano, nel marzo del 1609, le prediche quaresimali di Fulgenzio Micanzio che vengono interpretate a Roma come un attacco alla fede cattolica. Sarpi è anche preoccupato per la tregua stipulata tra la Spagna e i Paesi Bassi, perché vede in essa un indebolimento di questi ultimi «che, o prima o dopo, resteranno sopraffatti dalle arti spagnole», mentre gli spagnoli ne potrebbero trarre beneficio anche in vista del loro dominio in Italia. Sarpi sperava in un'alleanza generale di Francia, Inghilterra, principi protestanti, Paesi Bassi, Savoia e Venezia che portasse alla guerra contro l'Impero cattolico ispano-tedesco e cancellasse il dominio papale e spagnolo in Italia: «Se sarà guerra in Italia, va bene per la religione; e questo Roma teme; l'Inquisizione cesserà e l'Evangelio avrà corso». E andrà bene anche per le libertà civili di Venezia: qui, anche se «il giogo ecclesiastico è assai più mite che nel rimanente d'Italia, in quella parte nondimeno che tocca la stampa è l'istesso appunto che negli altri luoghi. Nessuna cosa si può stampare se non veduta e approvata dall'Inquisizione [...] Dove si ragiona di alcun papa, non permettono che si dica alcuna di disonore, se bene vera e notoria. Non permettono che alcuno separato dalla Chiesa romana sia lodato di qualsivoglia virtù, né nominato se non con vituperio».

Ai primi giorni del 1623 si ammalò gravemente, e morì il 15 gennaio. Secondo la versione ufficiale l'8 gennaio, sebbene sfinito, volle alzarsi per il mattutino, come al solito, e celebrare la Messa. La mattina del 12 gennaio, fatto chiamare il priore del convento, lo pregò che lo raccomandasse alle preghiere dei confratelli e che gli portasse il Viatico. Gli consegnò tutte le cose concesse a suo uso. Si fece vestire, si confessò e passò il resto del mattino facendosi leggere da fra Fulgenzio e da Fra Marco i Salmi e la Passione di Cristo narrata dagli Evangelisti. Gli fu quindi amministrato dal priore, alla presenza della Comunità, il Viatico. Il 14 mattina fu visitato dal medico che gli disse che aveva poche ore di vita. Egli, sorridendo, rispose: Sia benedetto Dio! A me piace ciò che a Lui piace. Col suo aiuto faremo bene anche quest'ultima azione (quella di morire). Fu udito ripetere più volte, con soddisfazione: Orsù, andiamo dove Dio ci chiama!. Secondo alcuni le sue ultime parole sarebbero state: Esto perpetua, riferendosi a Venezia (v. Bianchi-Giovini, 846, p.340-344). Esistono tuttavia altre versioni della sua morte che lo fanno apparire più vicino al culto protestante.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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