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Vittorio Imbriani
(✶1840   †1886)

Di rilievo anche l'attività legata alla didattica della letteratura italiana. A partire dal 1882, infatti, Imbriani pubblicò, in collaborazione con Carlo Maria Tallarigo, una Nuova crestomazia italiana in più volumi. Una menzione a parte meritano gli studi su Dante, fonti anch’essi di memorabili scontri coi dantisti fautori di tesi opposte, che furono raccolti e pubblicati postumi a cura di Felice Tocco (Studi danteschi, Firenze 1891).

Da citare dei suoi studi estetici l’interessante “teoria della macchia” in pittura, che mostra un Imbriani acuto osservatore, pur dal suo “splendido isolamento” di reazionario, della realtà artistica contemporanea: «la macchia è un accordo di toni, cioè di ombra e di luce, atto a suscitare nell'animo un qualsivoglia sentimento esaltando la fantasia fino alla produttività... La macchia è la parte subjettiva del quadro; mentre invece l’esecuzione è la parte obiettiva, è il soggetto che si fa valere e s’impone». Brillante e spesso polemica con artisti e soprattutto critici d’arte è la raccolta delle sue cronache sull'omonima mostra napoletana La quinta Promotrice (1868).

E di questa spesso risentita osservazione del presente vanno almeno ricordate le giustamente definite “terribili” Fame usurpate date in stampa a Napoli nel 1877, raccolta di quattro saggi critici che sono altrettante stroncature dei poeti Aleardo Aleardi e Giacomo Zanella, del Faust di Goethe e delle traduzioni di Andrea Maffei. E nondimeno, anche per i risvolti biografici, i due scritti contro Giosuè Carducci: Uno sguaiato Giosuè, uscito sulla rivista “La Patria” nel 1868, e l’ode Alla regina un monarchico, che replicava polemicamente all’ode carducciana Alla regina d'Italia.

Scritti politici

Altrettanto ampia l'attività di scrittore di cose politiche, per la più parte disseminata nelle numerose riviste alle quali nel corso di tutta una vita diede collaborazione. Il tratto principale d'essi è un'esigenza anzitutto morale d'intransigente opposizione a un andazzo della cosa pubblica ritenuto debole, corrotto e indegno della passata grandezza del paese e della forza e saldezza necessaria alla nazione di recente unificata; intransigenza che s'incrudì con l'ascesa della sinistra e che seppe giungere a una simile paradossale affermazione, dove Cesare Borgia e Maramaldo assurgono a simboli di buongoverno: «Che bella Italia sarebbe stata quella, che avesse avuto a capo un Cesare Borgia, per ministri de' Machiavelli, de' Guicciardini, de' Pontano, per generali de' Bartolomeo d'Alviano, de' Piero Strozzi, de' Renzo da Ceri, de' Fabrizio Maramaldo, per capo dell'istruzion pubblica un Bembo, per poeti aulici Ariosto, Trissino, Tasso...Ahimè invece... ma che cosa mi ha fatto questo povero foglio di carta per contaminarlo co' nomi de' nostri contemporanei». Da notare anche che quel Pietro Bembo a capo dell'istruzione è ben probabile una sarcastica allusione a Francesco de Sanctis, l'ex venerato maestro, che detestava il Bembo e che per allora era l'effettivo ministro dell'istruzione del governo di sinistra.

In questo senso va valutato anche il leitmotiv imbrianesco dell'applicazione inflessibile della pena capitale, che ricorre in alcune opere letterarie (infra) e che fu trattato esplicitamente in alcuni scritti di grande forza polemica: Per la pena capitale, Napoli, 1865; Pena capitale e duello, Bologna, 1869. Fino a giungere all'esaltazione poetica del tema nell'ode Inno al cànape d'un monarchico (1881).

Ma per avere un'idea degli argomenti e della vis polemica dei suoi scritti politici si può utilmente consultare le raccolte degli interventi giornalistici: Passeggiate romane, a cura di M. Praz, Bologna, Boni, 1980; e Ghiribizzi politici, a cura di N. Coppola in osservatorio politico-letterario, Roma, 1956; riediti a cura di B. Iezzi, Massa Lubrense, 1983.

Il titolo di quest'ultima raccolta col termine "ghiribizzi" rimanda efficacemente al punto di vista e lo stile tutti propri e particolari con cui Vittorio Imbriani interveniva sulle questioni politiche del suo tempo.

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Opere

Nelle opere letterarie di Vittorio Imbriani confluiscono tutti i suoi studi, le sue inclinazioni e le sue avversioni. Ciò che dà spesso una ventata d'estro ai suoi testi letterari. Ma il bizzoso, il ghiribizzoso, la bizzarria non sono tanto lo sfogo umorale d’un capo ameno seppur brillante e acutissimo d’ingegno, quanto una vera e propria macchina da guerra contro i gusti e le convenzioni letterarie del tempo.

I due romanzi, Merope IV (1867) e Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876) sono la parodizzazione e il ribaltamento ironico dei romanzi sentimentali torbidamente psicologici in cui il secondo ottocento romantico si compiaceva di rappresentare i suoi amori proibiti, da una parte ammantando di eccezionalità i personaggi e le storie raccontate, dall’altra ammiccando al gusto patetico e sentimentale dei lettori, che s'identificassero e compatissero con loro. L’operazione “perfida” d’Imbriani non è solo d’illustrare nei suoi romanzi la tesi dissacrante che il rapporto adulterino è giogo più pesante e noioso del matrimonio stesso: «Non presumo sputar fuori ned un paradosso, ned una novità; credo, anzi, ripeter cosa, ormai, consentita, da chiunque s’intenda, alcun po’, della partita; dicendo che una relazione è, quasi sempre, più pesante del matrimonio»; ma per giunta di smontare l’impalcatura narrativa, la struttura formale su cui i romanzi si reggevano e assecondavano le aspettative del lettore-tipo di quel prodotto letterario. E quest’opera di “guerrigliero”, di guastatore del gusto letterario corrente, insomma di distruzione letteraria che così a fondo fu condotta solo decine d’anni dopo dalle avanguardie primonovecentesche, Imbriani poté anticiparla paradossalmente proprio per la sua posizione di retroguardia in letteratura e reazionaria in politica. Posto importante in quest’opera di caustica distruzione ha la sua sterminata conoscenza linguistica e culturale, che egli usa indiscriminatamente in un miscuglio di registri differenti di lingua e di citazioni erudite fatte per interrompere e sviare il flusso del racconto. L'effetto di straniamento che si ottiene impedisce scontrosamente qualunque facile abbandono alla lettura e all'immedesimazione e può essere considerato il corrispettivo, nello stile, dell’indignazione e del risentimento morale imbrianesco. Ma erano romanzi forse troppo spiazzanti nel pastiche linguistico e nella demolizione della macchina narrativa per essere apprezzati appieno allora, e aspettavano probabilmente lettori più scafati per essere apprezzati in tutti i pregi che indubbiamente hanno.

Dei racconti d'Imbriani mette conto accennare almeno ai testi che più hanno destato interesse editoriale e contribuito alla recente reviviscenza di questo autore.
- La bella bionda. È un racconto lungo ambientato nella Napoli del tempo, e che più correva il rischio di cadere nel bozzettismo d'ambiente o nel realismo patetico di certe descrizioni delle classi umili. L'autore mette invece in primo piano l'ignavia e la corruzione della classe politica d'allora nella figura di Mimì Squillacciotti, che, brigato perché la bella Ersilia, orfana e povera, ottenesse un posto di maestra dopo averne fatto la sua amante, e attaccato per questo dai propri avversari politici non meno corrotti di lui, crolla politicamente portandosi dietro di sé, incapace di difenderla, la sua amante, che perde il posto e la sicurezza economica conquistata. Ma la scelta cinicamente consapevole della bella bionda di usare le sue grazie per procacciarsi da vivere autonomamente riscatta questa figura femminile — e il racconto — dalla fine strappalacrime che sembrava profilarsi. Tale consapevolezza, anche se con un po' di forzatura anacronistica, ha fatto definire questo racconto dalla casa editrice che di recente l'ha riedito: «il primo romanzo femminista italiano».
- Mastr'Impicca. Anche qui, però in controluce, è satireggiata l'imbelle classe politica del tempo e le sue istituzioni. Ma il modello letterario in cui l'autore trasfonde la satira, il racconto fantastico popolaresco o fiaba, libera maggiormente l'estro e il divertimento nel trattare il tema.
- La novella del vivicomburio. È il racconto dove più esplodono i fuochi d'artificio linguistici d'Imbriani. La scelta del modello letterario e del tema scabroso contribuiscono in buona misura a questo risultato. La veste boccaccesca del racconto, l'esplicitezza del linguaggio e delle metafore sessuali mutuata dai pornografi del cinquecento come l'Aretino, l'uso della lingua furbesca, il gergo furfantesco del cinquecento, fanno di questo racconto in cui l'Imbriani ritorna sul tema prediletto della pena capitale un esercizio di bravura stilistica che teme pochi confronti. Ma anche qui, con quell'intuizione del mondo cinica e beffarda propria di questo magnifico reazionario, il personaggio più straordinario è il capitano genovese dell'equipaggio di sodomiti, tale Parodi, che fin sopra il rogo che lo brucerà vivo ― di qui il termine vivicomburio ― proclamerà coram populo la supremazia della sua scelta sessuale sull'altra banalmente normale: sodomita impenitente fino all'ultimo. Alcune citazioni di passi della novella possono dar conto dello straordinario gioco linguistico

«Chi v'immaginate, ch'io mi sia? O fottermi come si conviene o menarvi la rilla. Ite ne' bronti di via Calabraghe: lì forse troverete brocchiere pronte a darvi il messere per qualche lampante di civetta o per poco di albume. Io no, io.»
«Marinaracci, buscanti, soliti ad andare in zoccoli per lo asciutto, rimanevan frigidi e scorgendo e palpando il più bel paio di mammellette, il più morvido pettignone e peloso; ma subito, ma ratto, vincendoli non so qual furia o fuoco o foia, gli s'inalberava lo scatapocchio allo aspetto od al tatto d'un paio di chiappe, di pacche, di mele.»
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- L’impietratrice. La sterminata erudizione dell’Imbriani, che nei romanzi è usata per sviare sardonicamente la narrazione, in questa “panzana”, tale è definita dall’autore, è usata per avviare invece la possibilità d’un diverso svolgimento storico, d’un’ucronia. Che il duca Valentino dopo la sconfitta in Italia sia morto in Spagna, è storia solo per chi conosce appena le fonti più note. Per chi come Imbriani è a conoscenza di tante rarità librarie, l’ultima parte di vita di Cesare Borgia ha ben altro esito. Che poi questo scorcio di biblioteca imbrianesca che sorregge la tesi storica, “preborgesianamente”, come è stato detto, mescoli edizioni false ma plausibili a edizioni vere ma improbabili, come può il povero lettore, impotente di fronte a tanto sfoggio di cultura, accorgersene? E così citazione dopo citazione libresca Cesare Borgia raggiunge il nuovo mondo e convince per amore la medusa azteca, la bellissima principessa che pietrifica chiunque la fissi negli occhi, Ciaciunena l’impietratrice, a essere strumento della sua vendetta e cambiare il corso storico delle cose italiane. Ma innamoratosi anche lui, l’audacia e la confidenza che anche come amante dimostra lo perde, e viene inavvertitamente pietrificato dalla fanciulla. Che disperata, vuole almeno portare a termine la vendetta dell’uomo che amava, e giunge in Vaticano alla presenza di Giulio II per pietrificare il papa e tutta la sua corte. Ma, com’è come non è, i suoi poteri lapidificatori decadono in questo emisfero e Giulio II scampa alla pietrificazione quanto al corpo; «quanto al cuore dell’augusto vegliardo, già da prima e da un pezzo era di sasso, di macigno, di scoglio», come lapidariamente – è il caso di dire– soggiunge l’explicit di questa serissima panzana. Neppure nel gioco letterario l’acre pessimismo d’Imbriani che colora di tragico il cinico e il beffardo della sua intuizione del mondo si placa. Né la storia d’Italia sa mutarsi in meglio e far pendere le sorti in favore della santa ambizione di Cesare Borgia d’unificarla. Sicché questa panzana che così bizzarramente illustra il suo pessimismo scava ben a fondo nelle scelte politiche d’Imbriani mettendo in luce e mostrando una delle convinzioni e degli atteggiamenti che infondono il suo spirito reazionario.

La controversa fortuna

Che alla turbinosa vita di questo scrittore così singolare sia succeduta un’altrettanto accidentata fortuna e fama postuma, a questo punto non è da stupire. Mette dunque conto in chiusura di questa voce illustrarla brevemente.

L'atteggiamento costantemente polemico d'Imbriani verso i contemporanei in ogni campo: politico, culturale, letterario spiega l'eclissi dello scrittore intervenuta con la morte dell'uomo. Sarà Croce a recuperare agli inizi del Novecento quell'autore particolare che però era appartenuto all'entourage dello zio e maestro Bertrando Spaventa. Ma pure in quest'opera meritoria restava confermato in Croce il giudizio scisso d'un Imbriani studioso serio e capace ma scrittore umorale e bizzarro, come il titolo dell'antologia di scritti imbrianeschi da lui curata subito rivela: Studi letterari e bizzarrie satiriche (1907).

Toccherà a Gianfranco Contini oltre la metà del secolo scorso (1968) a dare indicazione d'una lettura unitaria della vicenda d'Imbriani, accostando il suo caso e il suo stile a quello di Carlo Emilio Gadda, la cui grandezza veniva pienamente riconosciuta in quel torno di tempo. Da allora gli studi e le pubblicazioni d'Imbriani secondo il suggerimento di quell'autorità indiscussa in letteratura che fu Contini si sono susseguiti abbastanza regolarmente, e se pure il "misantropo napolitano", come Imbriani stesso ebbe a definirsi, resta ancora uno scrittore piuttosto "di nicchia", la sua presenza e importanza anche in letteratura è oggi pacifica e riconosciuta dalla critica più avvertita.

Quanto all'unità dell'uomo e dello scrittore, dello studioso e del letterato sintetizzata in quello stile così bizzarro e scorbutico, altra acquisizione ormai tutta compiuta dalla critica moderna, anche per Vittorio Imbriani possono valere alcune dichiarazioni che il gran lombardo fece della sua concezione di letteratura e di stile: «Nella mia vita di “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia” verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta». Era un'idea dell'esercizio letterario che non poteva certo avvalersi come strumento stilistico della «lingua dell'uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie». In questo senso la trasgressione e l'eccesso nello stile possono considerarsi anzitutto e principalmente come insofferenza e dirompente superamento di quell'angusto orizzonte linguistico.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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