Mettere la pulce nell'orecchio e tenere bordone
Il cavalier De Rossi era molto geloso della moglie e questo suo difetto era arrivato agli orecchi dei colleghi d'ufficio, che non perdevano occasione per rendergli la vita difficile. Un giorno, un collega più esuberante decise che era giunto il momento di mettere alla prova il De Rossi.
D'accordo con altri colleghi che gli tenevano bordone telefonò al collega geloso e, camuffando la voce, lo invitò a controllare le strane uscite della moglie. Da quel giorno la vita del De Rossi fu un inferno: trascorreva le notti insonne, la pulce gli ronzava sempre nell'orecchio.
I colleghi se ne accorsero e, presi dal rimorso cercarono di tranquillizzarlo dicendogli che la telefonata era stata uno scherzo di pessimo gusto. Ma la pulce, ormai, era penetrata negli orecchi di quel disgraziato.
Tenere bordone e mettere la pulce nell'orecchio sono modi di dire propri della nostra lingua anche se, per la verità, il secondo è un calco di un'espressione francese. Quanti conoscono l'origine di questi idiomatismi? Vediamo di scoprirla insieme.
Si adopera l'espressione tenere bordone quando si vuole assecondare qualcuno in un'impresa o in una discussione, soprattutto contro chi è impegnato in un lavoro o in un'attività su cui è implicito un giudizio poco lusinghiero. La locuzione è un prestito del linguaggio musicale: bordone è il nome di una canna di cornamusa (e degli strumenti a fiato, in genere) che emette un solo suono e fa da sostegno, da accompagnamento alla melodia eseguita dalle altre canne. Colui che tiene bordone, quindi, in senso figurato, accompagna un altro in una discussione e simili.
Mettere (o avere) la pulce nell'orecchio, invece, cioè insinuare dubbi, sospetti e simili, ricalca l'espressione francese mettre la puce à l'oreille. Questo modo di dire era di moda in Francia nel secolo XIII ed era riferito a colui (o colei) che era tormentato da una smania amorosa tanto da non riuscire a dormire, quasi avesse una pulce che gli ronzava negli orecchi.
Fuori: di o da?
Sulla preposizione (semplice o articolata) che deve seguire la preposizione impropria fuori i vocabolari non sono tutti concordi e i linguisti si accapigliano: di o da? Fuori di o fuori da? Ci vediamo fuori del portone o fuori dal portone?
Personalmente seguiamo — senza se e senza ma, espressione tanto cara ai politici che frequentano i vari salotti televisivi — le indicazioni dell'illustre glottologo Aldo Gabrielli, la cui fede linguistica non può esser messa in discussione: «Fuori si unisce al suo termine soltanto con la preposizione di: fuori di casa, fuori dei piedi, fuori dell'uscio e simili. Mai con la preposizione da, anche se non manca qualche esempio antico; perciò non diremo fuori da sé, fuori da casa, fuori dai piedi».
Gli fa eco il linguista Vincenzo Ceppellini, che nel suo Dizionario Grammaticale scrive: «Preposizione che indica distanza o esclusione. È seguita dalla preposizione di: “Son rimasto fuori di casa"; “È uscito fuori di strada" (sebbene si trovi talora: fuori strada)».
Come dicevamo, alcuni vocabolari ammettono solo la preposizione di; altri, salomonicamente, consentono tanto la preposizione di quanto la preposizione da. Che fare? Seguite ciò che vi suggerisce il vostro istinto linguistico.
La Crusca sembra essere dalla nostra parte.
Confessare il cacio...
... cioè dire la verità. Ecco un altro modo di dire non più di moda e relegato, quindi, nella soffitta della lingua. L'origine dell'espressione non è molto chiara, sembra sia tratta da una novella che narra di alcuni fanciulli che avevano rubato il cacio, ma non volevano ammetterlo, alla fine, però, sotto pressione, per paura di essere puniti se avessero continuato a mentire, confessarono il cacio, cioè dissero la verità.
Benedetto Varchi, nel suo “Ercolano", spiega: «Di coloro i quali (come si dice) confessano il cacio, cioè dicono tutto quanto quello che hanno detto e fatto a chi ne gli domanda, o nel potere della giustizia, o altrove che siano, s'usano questi verbi, eccetera».
Secondo un altro autore, Ludovico Passarini, il modo di dire potrebbe derivare dal fatto che «alle putte, o gazze, o cecche si dà da mangiare il cacio perché si crede che le faccia cinguettar meglio, rendendo più agile la loro linguetta e più atta a ripetere l'umana parola. D'onde potrebbe inferirsi che confessare il cacio, detto di chi confessa il vero, sia modo tratto ironicamente da esse putte, quasi dicesse ... gli è venuta la parlantina; confessa con ciò di aver mangiato il cacio; e quindi più semplicemente confessare il cacio per dire la verità».

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