Merenda

Di nuovo in tema di etimologia, vediamo come è nata la merenda che — come sappiamo — è una piccola colazione che si fa, generalmente, nel pomeriggio, tra il pranzo e la cena. Diamo la parola, in proposito, a Lodovico Griffa. Uno dei castighi per i ragazzi era la privazione della merenda.
Non discutiamo qui se questo castigo corrisponda ai canoni di una corretta pedagogia; fermiamoci invece a considerare come esso ci riveli un certo modo di pensare a proposito della merenda. Chi ricorreva a questa punizione non intendeva certo privare il ragazzo di una cosa che gli fosse indispensabile o che gli venisse per diritto insopprimibile. Semplicemente pensava di non potergli concedere una cosa, che, essendo un di più, il ragazzo doveva meritarsi e che nvece con il suo comportamento non aveva meritato.
La parola merenda, infatti, significa proprio cose da meritare (è pari pari il gerundivo latino merenda, da merere, meritare, propriamente cose da meritarsi per cibo. I nostri buoni vecchi dunque vedevano la merenda pomeridiana (che gli adulti usualmente non consumano) non come un pasto indispensabile ma come un premio aggiunto al normale nutrimento: in quanto premio, essa si concedeva solo a chi l'aveva meritata.
I pedagogisti, gli igienisti, i pediatri ci diranno se effettivamente la merenda vada considerata a questo modo; di fatto però nei tempi andati il concetto che si aveva, tradito proprio dal nome merenda era questo.
Sempre per gli amatori dell'etimologia, ricordiamo che dal verbo merere derivano alcune parole di uso comune quali meritare, merito, emerito e meretrice. Quest'ultimo vocabolo è il latino meretrice(m) e propriamente vale colei che merita un compenso, che si fa pagare, che guadagna (per le sue prestazioni). Da quest'ultimo termine discende, inoltre, l'aggettivo e sostantivo meretricio, con il plurale, si badi bene, meretrici per il maschile e meretricie per il femminile. Questa distinzione di plurali vale — ci sembra superfluo chiarirlo — solo quando il vocabolo è in funzione aggettivale.

23-02-2021 — Autore: Fausto Raso — permalink


Il facchino

Chi non conosce — si pure per pratica — il significato di facchino? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana alla voce in oggetto e leggere: chi, per un certo compenso, trasporta oggetti pesanti; specialmente nelle stazioni ferroviarie o nei porti e, con significato figurato, e soprattutto spregiativo, persona dai modi rozzi e volgari. Bene.
Occorre dire, però, che in origine, quando cioè nacque, questo sostantivo non aveva l'accezione volgare odierna, anzi. Se oggi, qualcuno di voi, cortesi amici, di ritorno da un viaggio di piacere all'estero, si rivolgesse a un funzionario di dogana alla frontiera e lo apostrofasse con un facchino offenderebbe il dirigente e potrebbe passare anche un brutto quarto d'ora. Non era, invece, un'offesa quando il termine facchino vide la luce, anche se non tutti concordano sull'etimologia del vocabolo.
Il facchino, infatti, originariamente, era lo scrivano di dogana. Secondo G.B. Pellegrini (Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all'Italia) il vocabolo risale alla voce araba faquih, teologo, giureconsulto, e passato in seguito a indicare il legale chiamato a dirimere controversie relative alla dogana.
Il passaggio corrotto semantico (significato delle parole) da doganiere a portatore di pesi (facchino) sarebbe avvenuto in seguito alla gravissima crisi economica del mondo arabo, allorché, nei secoli XIV e XV, i doganieri furono costretti — per sopravvivere — al piccolo commercio di stoffe che essi stessi trasportavano — sulle proprie spalle — di piazza in piazza.
Con il tempo, quindi, il facchino ha perso il significato austero di funzionario di dogana per acquisire quello spregiativo di persona rozza, volgare e per questo motivo si tende a sostituirlo con un termine più civile: portabagagli.

22-02-2021 — Autore: Fausto Raso — permalink


Alcuni verbi adoperati impropriamente

Diamo un elenco di alcuni verbi adoperati impropriamente — non in modo errato, si badi bene — e da evitare, per tanto, in buona lingua italiana.

CALCOLARE — il significato principe del verbo è fare i conti. È un francesismo bello e buono usarlo nel significato di: valutare, soppesare, considerare, pensare, stimare e simili. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere non dirà, per esempio, “abbiamo calcolato il pro e il contro prima di prendere questa decisione”, ma “abbiamo valutato il pro e il contro”.

DECLASSARE — verbo da lasciare ai gerghi ferroviario e marinaro. Una persona non si declassa, si rimuove da un incarico, da un posto. Ecco alcuni verbi che possono fare — secondo i casi — alla bisogna: deporre, retrocedere, rimuovere e simili.

ESULARE — significa andare in esilio. Gli amanti della buona lingua non lo usino nell'accezione di essere estraneo e simili: quello che stai facendo esula dalle tue competenze.

FIGURARE — si eviti l'uso del verbo in oggetto nel significato di essere presente: alla cerimonia figuravano le massime cariche dello Stato.

FORMARE — non si adoperi questo verbo nell'accezione di costituire, rappresentare e simili. Non si dica, per esempio, l'appartamento in cui abito è formato da quattro stanze.

GIUBILARE — provare giubilo. È invalso l'uso di usarlo dandogli l'accezione di mandare in pensione, collocare a riposo. Non tutti, però, giubilano nel momento di andare in quiescenza...

LUSINGARE — verbo adoperato nell'accezione di sperare, confidare e simili, soprattutto nel gergo commerciale: ci lusinghiamo di averla sempre come cliente. In uno scritto (e parlato) sorvegliato si dirà: confidiamo, speriamo di averla sempre come cliente.

19-02-2021 — Autore: Fausto Raso — permalink