Essere in veste di...
L'uso e il significato di questa espressione non abbisognano, certamente, di spiegazioni. Si adopera, infatti, in senso figurato e sta per come..., in qualità di.... Ti parlo in veste di amico, vengo in veste di ambasciatore. E la veste? Semplicissimo.
Nei tempi andati, alcuni capi d'abbigliamento distinguevano la professione, il ceto sociale e via dicendo di coloro che li indossavano. Erano, insomma, una sorta di uniforme, di divisa che rendevano la persona facilmente individuabile. Non di rado, infatti, si correva il pericolo di imbattersi in malfattori che si erano diligentemente travestiti da... gentiluomini.
E da qui, probabilmente, trae origine il modo di dire l'abito non fa il monaco. Vale a dire: sotto il saio si nasconde un'altra persona.
L'aposiopèsi
Ciò che stiamo per scrivere sarà censurato da qualche linguista o sedicente tale — ne siamo certi — se si dovesse imbattere in questo sito. Siamo convinti, però, della bontà della nostra tesi e proseguiamo per la nostra strada.
Vogliamo parlare di una figura retorica chiamata aposiopèsi e ritenuta affine, per non dire identica alla preterizione. A nostro avviso, invece, sono due figure con significati completamente diversi.
La preterizione, dal latino praetéreo (trascurare, passare oltre) è una figura retorica per la quale il parlante o lo scrivente dichiara di non voler parlare di un determinato argomento ma ne... parla subito dopo. Petrarca ci dà un bellissimo esempio di preterizione: «Cesare taccio, che per ogni piaggia fece l'erbe sanguigne di lor vene ove il nostro ferro mise».
L'aposiopèsi (probabilmente poco conosciuta sotto questo nome perché ritenuta, appunto, sinonima di preterizione), dalle voci greche ἀπό (apò, da, particella intensiva) e σιώπησις (siòpesis, taccio, ammutolisco, passo in silenzio, trascuro), consiste, invece, nel tacere qualcosa nel corso del discorso e nello scritto è rappresentata dai puntini di sospensione. Si usa, generalmente, per richiamare l'attenzione su ciò che si è taciuto, ma facilmente comprensibile.
Si adopera anche per esprimere un dubbio, una certa perplessità, un'esitazione di chi scrive. Ecco un esempio manzoniano: «Lo può; e potendolo... la coscienza... l'onore...».
Concludendo queste noterelle possiamo affermare (e attendiamo eventuali smentite) che la preterizione parla dopo l'aposiopèsi non parla né prima né dopo.
Lo sputapepe
Abbiamo notato che non tutti i vocabolari dell'uso attestano questo termine, che si riferice a una persona dalla parlantina facile, arguta ma petulante. I dizionari che lo registrano lo danno come sostantivo invariabile.
No, il vocabolo, riferito al maschile, si pluralizza normalmente: uno sputapepe, due sputapepi.
Segue, infatti, la regola della formazione del plurale dei nomi composti. Tale regola stabilisce che un sostantivo composto di una voce verbale (sputa) e un sostantivo maschile singolare (pepe) nella forma plurale cambia regolarmente.
Resta invariato solo se si riferisce a un femminile: Giovanna è una sputapepe; Luisa e Anna sono delle emerite sputapepe.

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