Capricci e generosità

«Il mio bambino oggi fa i capricci: ha la tonsillite; ma è generoso e non gli si può rimproverare nulla». Queste parole, pronunciate da una nostra amica nei confronti del suo pargoletto, ci hanno dato lo spunto per riprendere il nostro viaggio, attraverso l’immensa foresta del vocabolario della lingua italiana, alla ricerca di vocaboli di tutti i giorni, vocaboli che adoperiamo e conosciamo per pratica ma di cui ignoriamo il significato nascosto, quello insito nella parola.
Cominciamo con il capriccio. Chi non conosce questo termine? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della nostra bellissima lingua e leggere: voglia, fantasia improvvisa, irragionevole, di breve durata, stranezza, stravaganza, bizzarria.
Bene. Questo il significato scoperto. Vediamo, ora, quello nascosto che ci rimanda all’etimologia del termine. Diamo la ‘parola’, per questo, a un insigne linguista, di gran lunga più autorevole dell’estensore di queste modestissime noterelle: Etimo.it - capriccio.
Avete mai osservato il comportamento delle capre? Non è un comportamento… capriccioso? E veniamo a generoso, altro termine noto la cui… notorietà ci riporta al latino generosus, vale a dire che è di buon lignaggio, tratto da genus, razza, genere. Il generoso, stando all’etimologia, è grande e nobile di cuore, quindi generoso.
Terminiamo il viaggio con il rimprovero, altro vocabolo di uso comune e sulla bocca di tutti. Cos’è, dunque, un rimprovero? Apriamo, come il solito, un vocabolario della lingua italiana e leggiamo: il dire a qualcuno parole di censura e di biasimo e, concretamente, le stesse parole.
Questo il significato conosciuto. E quello ignoto, cioè il significato insito nel vocabolo medesimo? Anche in questo caso ci affidiamo al Pianigiani. Prima, però, c’è da dire che il sostantivo in oggetto è un deverbale, vale a dire un nome derivato da un verbo, nella fattispecie il verbo ‘rimproverare’. Sentiamo, ora, il Pianigiani: Etimo.it - rimproverare.
Speriamo, in proposito, che nessun lettore ci… rimproveri di averlo tediato con le nostre chiacchierate forse un po’ troppo tecniche.

17-08-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Dare il mattone a uno

Non vorremmo essere tacciati di presunzione se asseriamo — senza ombra di dubbio — che questo modo di dire è totalmente sconosciuto anche alle persone così dette acculturate.
La locuzione, intanto, si adopera (chi la conosce) quando si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona è stata costretta a fare una cosa che non voleva fare e, quindi, è stata sopraffatta, vinta da altre persone psicologicamente più forti.
Donde viene questo modo di dire? Dal gergo dei sarti. Giovanni Maria Cecchi, commediografo fiorentino del secolo XVI, dà, infatti, questa spiegazione: «I sartori quando hanno cucito un rimedio o un ribattuto, perché non si vegga, o venga bene spianato, tolgono una pietra morta che chiamano il mattone, e lo fanno rovente al fuoco: mettendoci poi sopra una pezzolina, e con una spugna immollano; mettendoci poi sopra il panno che vogliono spianare, con un istrumento di legno… largo dalla testa e stretto nel mezzo, che chiamano il bonzo, pigiano e stropicciano forte finché tal costura si spiani. Questo modo di fare si chiama “dare il mattone”. Onde per similitudine quando uno ha fatto fare a un altro o condottolo a cosa che non doveva, si dice tu gli hai dato il mattone».
L’espressione è stata estesa anche al significato di vincere uno in modo furbesco. Il Lasca ci dà un bellissimo esempio del modo di dire nelle Rime, allorché parla del Rovajo (un vento di tramontana, ndr): «Questa è la tua stagione, / o famoso Rovajo: / Furon tuoi sempre Dicembre e Gennaio, / Non di libeccio e di Marin poltrone, / E stai sotto al macchione; / Poi questa state ci darai il mattone, / Come spesso far suoi».

16-08-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


La fine del mondo...

Un gentile lettore, che desidera rimanere anonimo, ci ha scritto pregandoci di spiegare come è nata la locuzione È la fine del mondo per magnificare qualcosa, anche una bella ragazza.
«La fine del mondo — scrive — non è una minaccia apocalittica? Terrorizzante, spaventosa? Il detto giusto — prosegue — dovrebbe essere ‘è l’ottava meraviglia del mondo’, che gli ignoranti hanno cambiato».

Ci dispiace, gentile amico, ma il detto giusto è proprio È la fine del mondo, con due distinti significati che potremmo definire antitetici: uno negativo, l’altro positivo.
L’espressione, dunque, di uso prettamente popolare, è tratta dalle Sacre Scritture e si adopera — come si sa — quando si vuole mettere in evidenza una situazione o un avvenimento tremendo, disastroso, terrificante, che provoca scompiglio e paura, tale fa far ritenere che sia arrivata, per l’appunto, la fine del mondo.
Da questo significato negativo è nato — diciamo per antitesi — quello positivo: essere una cosa stupenda, straordinariamente bella e… irripetibile, tale da far pensare che il mondo non potrà più generare e, quindi, vedere qualcosa di altrettanto stupendo.

14-08-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink