Stancante e... «stancoso»
«È stato un lavoro veramente stancoso».
Se qualche studente scrivesse una frase del genere in un componimento sarebbe redarguito, senza dubbio, dal docente di lingua italiana. Chi scrive, a costo di attirarsi gli strali dei linguisti, non è di questo avviso. Sí, il vocabolo in oggetto non è attestato nei vocabolari, ma non per questo è da considerare errato.
Il suffisso "-oso" (dal latino "-osus") è tra i piú frequenti, nella nostra lingua, e indica, genericamente, la 'presenza' di una determinata qualità o condizione: ozio/ozioso, difetto/difettoso, ansia/ansioso, fiducia/fiducioso, collina/collinoso, stanco/... stancoso.
Si dirà: non esiste "stancante" per dire la stessa cosa? Sí, ma noi faremmo un distinguo: "stancante", participio presente del verbo stancare, quando vogliamo mettere in evidenza che quella cosa, quel determinato lavoro "provoca stanchezza": ciò che dovrò fare sarà molto 'stancante'; "stancoso", quando ciò che è stato fatto ha procurato stanchezza: è stato un compito veramente 'stancoso'.
Americanismi
Con la scoperta del "Nuovo Mondo" (XV secolo) sono entrate nel nostro idioma altre parole perché gli scopritori si trovarono a dover designare gli oggetti, le piante, gli animali, i fenomeni che esistevano nel mondo nuovo e non nel nostro, cosí parecchi di quei nomi - entrati nel nostro lessico - finirono col diventare comunissimi. Basti pensare che provengono dall'America le patate, il granturco, i pomodori, i tacchini, i fagioli e le mele. Oggi nessuno, quando va al mercato a comprare un chilo di patate, per esempio, sa di adoperare un "americanismo" tanto è comune, ormai, questo nome.
E a proposito di piante provenienti dal nuovo mondo, i linguisti di allora si trovarono di fronte a un dilemma: o accettare i nomi adoperati dagli indigeni o coniare nuovi termini. Furono seguite ambedue le strade. Per le patate, per esempio, fu conservato il nome americano un po' alterato; per il pomodoro i linguisti hanno creato un nome nostrano. Ancora oggi, a distanza di secoli, c'è oscillazione tra le due strade per quanto riguarda il nome di una pianta: il granturco. Chi lo chiama con il nome americano "mais", chi con quello italiano "granone", "frumentone", "granturco".
Perché "grano turco" si domanderà - giustamente - qualcuno? La Turchia che cosa c'entra? Nulla, assicurano storici e botanici. Colombo ci fa sapere di aver portato lui stesso i semi di quella pianta in Spagna, di ritorno dal suo primo viaggio "americano". Perché turco, dunque? Perché l'aggettivo turco - secondo i vocabolari - va inteso come "esotico". Di diverso avviso, invece, il linguista Ottorino Pianigiani.
Provengono dall'America anche i cosí detti fichi d'India, cosí denominati perché "provenienti dalle Indie" (senza specificare se venissero proprio dall'India o dal nuovo mondo che, a causa del suo errore geografico, il grande navigatore riteneva essere l'India). Annoieremmo i lettori se elencassimo tutti i "termini americani" entrati a pieno titolo nella nostra lingua, nel Cinquecento e nei secoli successivi, per designare animali e piante, cibi e bevande e altri oggetti di uso comune. Vale la pena, però, citare alcuni nomi di animali di cui si ha conoscenza attraverso gli zoo, come i 'giaguari', i 'lama', i 'mandù', tutti animali che non si sono acclimatati nel vecchio mondo (Europa).
Tra le piante citiamo la 'china' e la 'coca' oltre al famoso legno pregiato 'mogano'. E concludiamo queste noterelle con il "cannibale", nome adoperato per indicare un antropofago, che in realtà non è che l'uso estensivo del nome proprio di una popolazione delle Antille: Cannibali o Caribi. Bisogna anche ricordare, però, che non tutti gli americanismi entrarono nella nostra lingua subito dopo la scoperta del nuovo mondo, ma nei secoli successivi, a mano a mano che giungevano altre notizie dal... Mondo Nuovo.
Far fiasco
Quel giorno Paolino non vedeva l'ora di tornare a casa da scuola: doveva comunicare al padre una bella notizia. Il componimento di italiano che aveva svolto in classe aveva ottenuto un successo straordinario; la maestra si era congratulata: «Bravo Paolino, il tuo tema è meraviglioso, un fiasco completo, complimenti». Non sapeva, il fanciullo, che l'insegnante voleva intendere tutto il contrario: quel "fiasco" stava a significare, appunto, uno sfacelo completo. Il modo di dire "far fiasco" si adopera — come tutti dovrebbero sapere — quando si vuole mettere in evidenza l'insuccesso di qualcuno in un determinato campo.
La locuzione potrebbe essere nata — secondo un fatterello raccontato da alcuni autori — da una disavventura occorsa all'Arlecchino bolognese, Domenico Biancolelli. Questi improvvisò un monologo intorno a un fiasco che aveva tra le mani, il pubblico, però, non rise. Il Biancolelli, non celando un certo disappunto, imputò la colpa del suo insuccesso al fiasco, «è tutta colpa tua», urlò, e gettò il fiasco dietro le spalle. Da allora l'espressione si adopera per indicare l'insuccesso di uno spettacolo teatrale e, per estensione, l'insuccesso di un qualunque
lavoro.
Altri autori, invece, farebbero derivare la locuzione dal gergo dei soffiatori di vetro. Quando sbagliano nel "comporre" un recipiente al quale volevano dare una forma particolare finiscono con il trovarsi fra le mani una grossa bolla di vetro simile a un… fiasco. Di qui la metafora, appunto. Noi ci auguriamo di non far fiasco in queste modeste noterelle che, speriamo, abbiano sempre il gradimento dei nostri gentili lettori.

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