L'acirologia

Oggi vogliamo peccare di presunzione affermando che la quasi totalità dei così detti opinionisti e gente di cultura, che affollano le redazioni dei maggiori quotidiani nazionali, non hanno mai sentito parlare di una particolare figura retorica chiamata acirologia, anche se l’adoperano supinamente – a ogni piè sospinto – nei loro pregevoli (anche se non sempre linguisticamente corretti) articoli.
La colpa, forse, non è loro: non tutti i sacri testi grammaticali trattano – come dovrebbero – gli argomenti di retorica. Gli amici lettori che si interessano alle questioni di lingua sanno benissimo che un tempo con il termine retorica (o rettorica) si intendeva l’arte dello scrivere e del parlare secondo norme fissate per la prima volta nell’antica Grecia e sviluppatesi, in seguito, nella cultura romana, medievale e umanistica.
Oggi nell’accezione comune questo nobile vocabolo è usato, molto spesso, con valore negativo, per indicare un modo di scrivere (e di comunicare) ampolloso, artificioso, ornato ma privo di contenuti validi; un modo di esprimersi, insomma, capace di sedurre l’interlocutore con il suo aspetto esteriore.
Alla base della retorica – quella tradizionale – ci sono le così dette figure, vale a dire particolari forme espressive adoperate dai poeti e dai prosatori per innalzare lo stile, per diversificare il loro dire rispetto al parlare comune. Al tempo stesso le “figure” si ritrovano anche nel parlare quotidiano: senza rendercene conto facciamo uso di metafore, di iperboli, di metonimie e di… acirologie.
L’acirologia (dal greco άκυρος, akyros, improprio e λόγος, logos, discorso) è, infatti, una figura retorica per cui si adopera una parola invece di un’altra più appropriata che, però, manca nella nostra lingua: il dorso di una montagna.
Un sinonimo dell’acirologia è la catacrèsi. Per una migliore spiegazione di questo termine ricorriamo – come facciamo spesso – alle sapienti note dell’insigne e compianto linguista Aldo Gabrielli. Vediamo.

«… dal greco katàchresis, cattivo uso, abuso; detta anche abusione (dal latino abusio) che traduce letteralmente il greco: è una forma di metafora per cui il nome di una cosa si estende ad un’altra per mancanza di parola propria: il ‘collo’ della bottiglia, il ‘piede’ del tavolino, la ‘testa’ dello spillone, ‘seno’ di mare, ‘lingua’ di terra e simili; oppure una parola che si usa con un significato che è in contraddizione con quello originario: tramontare del mare, brutta calligrafia, amara dolcezza, ecc.”.

La catacresi (o acirologia), insomma, è un uso-abuso di alcune parole della nostra lingua. A questo proposito occorre dire, per la verità, che non tutti gli Autori concordano sulla definizione di questo tropo (traslato e, in senso stretto, metafora, NdR): in linea generale si definisce catacresi ogni figura retorica che sia entrata nelle parole di tutti i giorni e non sia, per tanto, più riconoscibile come una particolare figura retorica.
La questione, insomma, amici che amate la lingua, è ancora aperta. E qui potremmo azzardare un parallelo con i neologismi. Poiché l’acirologia o catacresi o abusione si adopera per mancanza di una parola propria, come nel caso del collo della bottiglia, del piede del tavolo e via dicendo, potremmo tentare di trovare parole proprie, parole, cioè, riferite esclusivamente a quella determinata attività o cosa.
Proponiamo, quindi, al ministero della Difesa e ai compilatori dei vocabolari di chiamare i soldati di Sanità – che non hanno un nome proprio – sanitieri, per analogia con bersaglieri, granatieri e via discorrendo. E al ministero delle Comunicazioni – e sempre per conoscenza alle case editrici dei dizionari – di aborrire quell’orribile cellulare che sa tanto del… cellulare delle forze dell’ordine e chiamare il telefono portatile trillino. È una proposta “oscena”? Non crediamo.
26-05-2009 — Autore: Fausto Raso