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Grazia Deledda
(✶1871   †1936)

Il bene e il male

«Nelle sue pagine si racconta della miserevole condizione dell'uomo e della sua insondabile natura che agisce - lacerata tra bene e male, pulsioni interne e cogenze esterne, predestinazione e libero arbitrio - entro la limitata scacchiera della vita; una vita che è relazione e progetto, affanno e dolore, ma anche provvidenza e mistero. La Deledda sa che la natura umana è altresì - in linea con la grande letteratura europea - manifestazione dell'universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni, compensazioni e censure. Spesso, infatti, il paesaggio dell'anima è inteso come luogo di un’esperienza interiore dalla quale riaffiorano ansie e inquietudini profonde, impulsi proibiti che recano angoscia: da una parte intervengono i divieti sociali, gli impedimenti, le costrizioni e le resistenze della comunità di appartenenza, dall’altra, come in una sorta di doppio, maturano nell'intimo altri pensieri, altre immagini, altri ricordi che agiscono sugli esistenti. La coscienza dell'Io narrante, che media tra bisogni istintuali dei personaggi e contro-tendenze oppressive e censorie della realtà esterna, sembrerebbe rivestire il ruolo del demiurgo onnisciente, arbitro e osservatore neutrale delle complesse dinamiche di relazione intercorrenti tra identità etiche trasfigurate in figure che recitano il loro dramma in un cupo teatro dell'anima».

Sentimento religioso

«In realtà il sentimento di adesione o repulsione autorale rispetto a questo o a quel personaggio, trova nella religiosità professata e vissuta, una delle discriminanti di fondo. Di fronte al dolore, all'ingiustizia, alle forze del male e all’angoscia generata dall'avvertito senso della finitudine, l’uomo può soccombere e giungere allo scacco e al naufragio, ma può altresì decidere di fare il salto, scegliendo il rischio della fede e il mistero di Dio. Altri tormenti vive chi, nel libero arbitrio, ha scelto la via del male, lontano dal timor di Dio e dal senso del limite, e deve sopportare il peso della colpa e l'angoscia del naufrago sospeso sull’abisso del nulla».

Personaggi

«Le figure deleddiane vivono sino in fondo, senza sconti, la loro incarnazione in personaggi da tragedia. L'unica ricompensa del dolore, immedicabile, è la sua trasformazione in vissuto, l'esperienza fatta degli uomini in una vita senza pace e senza conforto. Solo chi accetta il limite dell'esistere e conosce la grazia di Dio non teme il proprio destino. Portando alla luce l'errore e la colpa, la scrittrice sembra costringere il lettore a prendere coscienza dell'esistenza del male e nel contempo a fare i conti col proprio profondo, nel quale certi impulsi, anche se repressi, sono sempre presenti. Ma questo processo di immedesimazione non conosce catarsi, nessun liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, perché la vicenda tragica in realtà non si scioglie e gli eventi non celano alcuna spiegazione razionale, in una vita che è altresì mistero. Resta la pietas, intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, come comprensione delle fragilità e delle debolezze umane, come sentimento misericordioso che induce comunque al perdono e alla riabilitazione di una comunità di peccatori con un proprio destino sulle spalle. Anche questo avvertito senso del limite e questo sentimento di pietà cristiana rendono la Deledda una grande donna prima ancora che una grande scrittrice».

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Una Sardegna mitica

La Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e della tradizione sarda, in particolare della Barbagia. «L’isola è intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere.»

«Intendo ricordare la Sardegna della mia fanciullezza, ma soprattutto la saggezza profonda ed autentica, il modo di pensare e di vivere, quasi religioso di certi vecchi pastori e contadini sardi (...) nonostante la loro assoluta mancanza di cultura, fa credere ad una abitudine atavica di pensiero e di contemplazione superiore della vita e delle cose di là della vita. Da alcuni di questi vecchi ho appreso verità e cognizioni che nessun libro mi ha rivelato più limpide e consolanti. Sono le grandi verità fondamentali che i primi abitatori della terra dovettero scavare da loro stessi, maestri e scolari a un tempo, al cospetto dei grandiosi arcani della natura e del cuore umano...»
(Discoteca di Stato: parole registrate nella serie "La Voce dei Grandi", anche in "Il Convegno", Omaggio alla Deledda (N. Valle), 1959.)

Lingua e stile

È stata la stessa Deledda a chiarire più volte, nelle interviste e nelle lettere, la distanza tra la cultura e la civiltà locali e la cultura e la civiltà nazionali. Ma anche questo suo parlare liberamente del proprio stile e delle proprie lingue ha suscitato e suscita soprattutto oggi interpretazioni fuorvianti, e tuttavia ripropone senza posa l'intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua come una equazione mal risolta.

In una sua lettera scrive: "Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano - ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall'italiana". La lingua italiana è quindi, per lei sardofona, una lingua non sua, una lingua che deve conquistarsi. La composizione in lingua italiana, per uno scrittore che assuma la materia della narrazione dal proprio vissuto e dal proprio universo antropologico sardo, presenta numerose e sostanziali difficoltà e problemi. Né il dibattito recente sul bilinguismo è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Doppia identità per questa specie particolare di bilinguismo, e di diglossia che è stata per secoli la "condizione umana degli scrittori italiani non toscani; ma anche dei toscani, quando non componevano in vernacolo".

L' attività epistolare e autocorrettoria di Grazia Deledda è ben ponderata, cosa che non le impedì di scrivere in lingua italiana questa lettera del 1892 sull'italiano: "Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà". Dall'epistolario e dal suo profilo biografico si evince un distinto senso di noia per quei manuali di "lingua" italiana che avrebbero dovuto insegnarle lo stile e che sarebbero dovuti esserle di aiuto nella formazione della sua cultura letteraria di autodidatta, di contro emerge una grande abitudine alla lettura e una grande ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi.

Quella della Deledda era una scrittura moderna che ben si adattava alla narrazione cinematografica, infatti dai suoi romanzi vennero tratti diversi film già nei primi anni dieci del XX secolo. Nel 1916 il regista Febo Mari aveva iniziato a girare Cenere con l'attrice Eleonora Duse, purtroppo a causa della guerra il film non fu mai concluso.

Nel più recente dibattito sul tema delle identità e culture nel terzo millennio, il filologo Nicola Tanda ha scritto: "La Deledda, agli inizi della sua carriera, aveva la coscienza di trovarsi a un bivio: o impiegare la lingua italiana come se questa lingua fosse stata sempre la sua, rinunciando alla propria identità o tentare di stabilire un ponte tra la propria lingua sarda e quella italiana, come in una traduzione. Comprendendo però che molti di quei valori di quel mondo, di cui avvertiva imminente la crisi, non sarebbero passati nella nuova riformulazione. La presa di coscienza, anche linguistica, della importanza e dell'intraducibilità di quei valori, le consente di recuperare termini e procedimenti formali del fraseggio e della colloquialità sarda che non sempre trovano in italiano l'equivalente e che perciò talora vengono introdotti e tradotti in nota. Nei dialoghi domina meglio l'ariosità e la vivacità della comunicazione orale, di cui si sforza di riprodurre l'intonazione, di ricalcare l'andamento ritmico. Accetta e usa ciò che è etnolinguisticamente marcato, imprecazioni, ironie antifrastiche, risposte in rima, il repertorio di tradizioni e di usi, già raccolto come materiale etnografico per la Rivista di tradizioni popolari, che ora impiega non più come reperto documentario o decorativo ma come materiale estetico orientato alla produzione di senso. Un'operazione tendenzialmente espressionistica che la prosa italiana, malata di accademismo con predilezione per la forma aulica, si apprestava a compiere, per ricavarne nuova linfa, tentando sortite in direzione del plurilinguismo o verso il dialetto."

Alcuni studiosi asseriscono che la Deledda, benché sardofona, abbia deciso di scrivere in lingua italiana, in risposta al clima di italianizzazione e omogenizzazione culturale, per raggiungere un più ampio mercato.

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Opere

Nell'azzurro!..., Milano, Trevisini, 1890.
Stella d'oriente/Ilia di Saint-Ismael, Cagliari, Tip. Edit. dell'Avvenire di Sardegna, 1890.
Fior di Sardegna, Roma, Perino, 1891.
Racconti sardi, Sassari, Dessì, 1894.
Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, Roma, Forzani e c. tipografi del Senato, 1894.
Anime oneste. Romanzo famigliare, Milano, Cogliati, 1895.
La via del male, Torino, Speirani e Figli, 1896.
L'ospite, Rocca S. Casciano, Cappelli, 1897.
Paesaggi sardi, Torino, Speirani e Figli, 1897.
Il tesoro, Torino, Speirani e Figli, 1897.
Le tentazioni. Novella sarda, in "Nuova Antologia", 1898; Milano, Cogliati, 1899.
La giustizia, Torino, Speirani e Figli, 1899.
Giaffah. Racconto, Milano-Palermo, Sandron, 1900.
Il vecchio della montagna, Torino, Roux e Viarengo, 1900.
Elias Portolu, in "Nuova Antologia", agosto-ottobre 1900; Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1903.
La regina delle tenebre, Milano, Agnelli, 1902.
Dopo il divorzio, Torino, Roux e Viarengo, 1902.
I giuochi della vita, in "Nuova Antologia", 1902; Milano, Treves, 1905.
Cenere, Roma, Nuova Antologia, 1904.
Nostalgie, Roma, Nuova Antologia, 1905.
L'ombra del passato, Roma, Nuova Antologia, 1907.
Amori moderni, Roma, Voghera, 1907.
Il nonno. Novelle, Roma, Nuova Antologia, 1908.
L'edera, in "Nuova Antologia", 1908; Milano, Treves, 1921.
Il nostro padrone, Milano, Treves, 1910.
Sino al confine, Milano, Treves, 1910.
Colombi e sparvieri, Milano, Treves, 1912.
Chiaroscuro. Novelle, Milano, Treves, 1912.
L'edera. Dramma in tre atti, con Camillo Antona-Traversi, Milano, Treves, 1912.
Canne al vento, in "L'Illustrazione italiana", 12 gennaio-27 aprile 1913; Milano, Treves, 1913.
Le colpe altrui, Milano, Treves, 1914.
Marianna Sirca, Milano, Treves, 1915.
Il fanciullo nascosto. Novelle, Milano, Treves, 1915.
L'incendio nell'oliveto, Milano, Treves, 1918.
Il ritorno del figlio; La bambina rubata. Novelle, Milano, Treves, 1919.
La madre, Milano, Treves, 1920.
La Grazia. Dramma pastorale in tre atti, con Claudio Guastalla e Vincenzo Michetti, Milano, Ricordi, 1921.
Il segreto dell'uomo solitario, Milano, Treves, 1921.
Il Dio dei viventi, Milano, Treves, 1922.
Il flauto nel bosco. Novelle, Milano, Treves, 1923.
La danza della collana, Milano, Treves, 1924.
La fuga in Egitto, Milano, Treves, 1925.
Il sigillo d'amore, Milano, Treves, 1926.
Annalena Bilsini, Milano, Treves, 1927.
Il fanciullo nascosto, Milano, Treves, 1928.
Il vecchio e i fanciulli, Milano, Treves, 1928.
Il dono di Natale, Milano, Treves, 1930.
Il paese del vento, Milano, Treves, 1931.
La vigna sul mare, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932.
Sole d'estate, Milano, Treves, 1933.
L'argine, Milano, Treves, 1934.
La chiesa della solitudine, Milano, Treves, 1936.
Cosima, in "Nuova Antologia", 16 settembre e 16 ottobre 1936; Milano, Treves, 1937.
Versi e prose giovanili, Milano, Treves, 1938.
Il cedro del Libano. Novelle, Milano, Garzanti, 1939.
Lettere di Grazia Deledda a Marino Moretti (1913-1923), Padova, Rebellato, 1959.
Lettere inedite, Milano, Fabbri, 1966.
Lettere inedite di Grazia Deledda ad Arturo Giordano, direttore della Rivista letteraria, Alghero, Nemapress, 2004. ISBN 88-7629-023-0.
Lettere ad Angelo De Gubernatis (1892-1909), Cagliari, Centro di studi filologici sardi-CUEC, 2007. ISBN 978-88-8467-399-2.
Amore lontano. Lettere al gigante biondo (1891-1909), Milano, Feltrinelli, 2010. ISBN 978-88-07-49102-3.

Riduzioni cinematografiche e televisive

Cenere 1916, regia di Febo Mari, con Eleonora Duse.
La grazia 1929, film muto, tratto dalla novella Di Notte regia di Aldo De Benedetti.
Le vie del peccato di Giorgio Pàstina, 1946, tratto dalla novella Dramma che era comparsa nella raccolta Il fanciullo nascosto, 1928.
L'edera regia di Augusto Genina, 1950.
Amore rosso - Marianna Sirca di Aldo Vergano, tratto da Marianna Sirca, 1952
Proibito, tratto dal romanzo La Madre, regia di Mario Monicelli, 1954.
Canne al vento (sceneggiato televisivo) regia di Mario Landi, 1958.
L'edera (sceneggiato televisivo) regia di Giuseppe Fina, 1974.
Il Peccatore (film) regia di Francesco Trudu, 2014, tratto dalla novella La madre

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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