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Indro Montanelli
(✶1909   †2001)

Nello stesso 1956 la sua attività d'inviato aveva portato Montanelli a Budapest, dove fu testimone della rivoluzione ungherese. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un'opera teatrale, I sogni muoiono all'alba (1960), da lui portata anche al cinema l'anno successivo insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, con Lea Massari e Renzo Montagnani nel ruolo dei giovani protagonisti.

Nel 1959 Montanelli fu protagonista della prima intervista rilasciata da un Papa ad un quotidiano laico, pubblicando il resoconto di un suo incontro con Giovanni XXIII. Il pontefice, tramite il suo segretario Loris Capovilla, aveva informato Missiroli di voler concedere un'intervista a un giornalista esterno al mondo cattolico. Il direttore del giornale designò perciò Montanelli al posto del vaticanista del Corriere, Silvio Negro. Superato l'iniziale imbarazzo nel trovarsi di fronte a un mondo a lui non familiare, il giornalista intrattenne una lunga conversazione con il Papa, il quale gli confidò anche alcune sue opinioni private, come la sua scarsa stima per il suo predecessore Pio X, canonizzato alcuni anni prima. L'incontro con Giovanni XXIII fu pubblicato sulla terza pagina del Corriere, cosa che Montanelli considerò una posizione inadatta per lo storico evento (il giornalista attribuì questa scelta di Missiroli alla sua preoccupazione di non offendere Negro per l'esclusione). D'altra parte, il direttore rimproverò a Montanelli di avere relegato a un accenno la storica decisione dell'indizione del Concilio Vaticano II, una notizia che Giovanni XXIII aveva ufficializzato proprio durante l'incontro: Montanelli, inesperto del linguaggio ecclesiastico, non aveva colto l'importanza dell'annuncio.

Nel 1963, dopo il disastro del Vajont, Montanelli assunse una posizione controversa in merito alle reali cause della tragedia affermando il carattere di catastrofe naturale della stessa e tacciando di «sciacallaggio» l'attività di alcuni giornalisti italiani, tra i quali Tina Merlin dell'Unità, che avevano denunciato i rischi derivanti dalla costruzione della diga per l'incolumità della popolazione; nel 1998, rispondendo a un lettore, raccontò che quella presa di posizione fu dovuta al comportamento di una certa stampa che, senza avere prove in quel momento, cercava di addossare tutta le responsabilità all'industria privata per accontentare quella parte politica che reclamava la nazionalizzazione dell'industria elettrica, riconoscendo l'errore ma affermando che in circostanze analoghe l'avrebbe ricommesso.

A partire dal 1965 partecipò attivamente al dibattito sul colonialismo italiano. In accesa polemica con lo storico Angelo Del Boca, Montanelli sostenne ostinatamente l'opinione secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all'azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene. Nei suoi numerosi interventi pubblici negò ripetutamente l'impiego sistematico di armi chimiche come iprite, fosgene e arsine da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia, salvo poi nel 1996 scusarsi quando il suo oppositore dimostrò, documenti alla mano, l'impiego di tali mezzi di distruzione.

Dichiaratamente anticomunista, anarco-conservatore (come amava definirsi su suggestione del grande amico Prezzolini), liberale e controcorrente, vedeva nelle sinistre un pericolo incombente, in quanto foraggiate dall'allora superpotenza sovietica.

Nel 1968 Montanelli pubblicò sul Corriere una serie di inchieste sulle città che aveva maggiormente nel cuore. I servizi riguardarono, tra le altre, Firenze e Venezia. Il giornalista dedicò ampio spazio alla Serenissima, lanciando l'allarme per la salvaguardia della città. Montanelli rilevò i pericoli che la crescente industrializzazione stava arrecando al delicato ecosistema lagunare. Stabilì un rapporto causa-effetto tra la forte industrializzazione della zona attorno a Porto Marghera e l'inquinamento a Venezia, la città e i suoi monumenti. Infine denunciò il silenzio delle pubbliche autorità, che continuavano ad ignorare i sintomi del degrado della laguna (su tutti l'acqua alta, che proprio in quegli anni iniziava ad essere molto frequente). Impiegò, in quest'opera di impegno civile svincolata da tematiche o colorazioni partitiche, tutta la sua autorevolezza personale. L'anno seguente, nel 1969, Montanelli registrò tre reportage televisivi per la Rai, dedicati rispettivamente a Portofino, Firenze e Venezia.

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L'abbandono del Corriere

A partire dalla metà degli anni sessanta, dopo la morte di Mario e Vittorio Crespi e la grave malattia del terzo fratello Aldo, la proprietà del Corriere fu gestita dalla figlia di quest'ultimo. Sotto il controllo di Giulia Maria, il quotidiano operò una netta virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972, con il licenziamento in tronco del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone.

Montanelli diede un giudizio tagliente sull'operazione. In un'intervista a L'Espresso dichiarò che «un direttore non lo si caccia via come un domestico ladro» e, rivolgendosi ai Crespi, stigmatizzò il «modo autoritario, prepotente e guatemalteco che hanno scelto per imporre la loro decisione». L'articolo fece sensazione. Montanelli ricevette addirittura una proposta di candidatura alle imminenti elezioni politiche da Ugo La Malfa, presidente del Partito Repubblicano e suo amico personale (era stato lui a introdurre il giornalista, nel 1935, nel gruppo di antifascisti che in seguito avrebbero fondato il Partito d'Azione). Montanelli declinò la proposta, girandola signorilmente a Spadolini. Un altro terreno di scontro con la proprietà del Corriere della Sera fu la sostituzione del capo della redazione romana, Ugo Indrio. Dopo il cambio di direttore, Indrio fu costretto a dimettersi; Montanelli lo difese, ma non riuscì ad evitare il suo allontanamento.

A partire dal 1973 Montanelli cominciò ad esprimere il proprio malumore sulla conduzione del giornale. Piero Ottone replicò con un articolo di fondo nel quale ribadiva la giustezza della propria posizione. Per evitare quella che considerava l'«autocensura rossa» attuata da molti colleghi, Montanelli scelse di limitarsi a curare una rubrica settimanale, «Montanelli risponde». Il giornalista entrò definitivamente in rotta di collisione con la proprietà in seguito a due interviste rilasciate nell'ottobre 1973 e ad un articolo molto polemico nei confronti di Camilla Cederna (definita radical chic), grande amica di Giulia Maria Crespi. La prima intervista fu pubblicata il 10 ottobre sul settimanale politico-culturale Il Mondo. Montanelli dichiarava a Cesare Lanza:

«Non esiste un contrasto personale fra Piero Ottone e me. Siamo, anzi, in ottimi rapporti. C'è piuttosto un'impostazione del Corriere della Sera del tutto diversa da quella che è la tradizione del giornale: dissensi sull'attuale indirizzo esistono e sono stati apertamente manifestati. Un dissenso niente affatto sotterraneo, un dibattito; e può darsi che esso si concluda con la sconfitta di chi sostiene questi valori tradizionali. In questo caso, potrebbe avvenire una secessione.»
(Giampaolo Pansa, Comprati e venduti, Bompiani, 1977, pag. 143.)

E concludeva lanciando un appello:

«Ci vorrebbe da parte di una certa borghesia lombarda, che si sente defraudata dal suo giornale, un gesto di coraggio, di cui però questa borghesia, capace in fondo solo di brontolare, non è capace.»
(Giampaolo Pansa, op. cit., pag. 143.)

La seconda uscì il 18 ottobre su Panorama. L'intervista, raccolta da Lamberto Sechi, venne pubblicata con il titolo Montanelli se ne va. E nel sommario: «"A novembre mi metto in pensione", annuncia il più famoso giornalista italiano. I motivi: dissensi sulla nuova linea del Corriere, vecchia ruggine con uno dei proprietari, Giulia Maria Crespi. Per adesso pensa a portare a termine gli ultimi volumi della sua Storia d'Italia. Ma non gli dispiacerebbe, dice, fondare un nuovo giornale».

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L'editorialista spiegava:

«Tra virgolette, ora mi si può solo attribuire questo: il Corriere era un giornale misto, nel senso che conciliava il tipo di giornale a grande tiratura con quello di giornale d'élite. È molto probabile che questo compromesso si basasse su un tipo di pubblico e di società che non esiste più e che quindi oggi ci si deva [sic] rinunciare. Questa rinuncia Ottone la sta compiendo con coerenza (il giornale è anche tecnicamente fatto bene) e forse non poteva esimersi dal compierlo. Ma mette me in estremo disagio. Non gliene faccio alcun rimprovero. Semplicemente constato che le mie attitudini, la mia mentalità, il mio stile, tutto mi rende difficile l'adeguamento.»
(Franco Di Bella, Corriere segreto, Milano, Rizzoli, 1982, p. 402 Appendice.)

Nel seguito dell'articolo, Panorama scriveva che Montanelli stava già pensando di realizzare un nuovo giornale con alcuni suoi fedelissimi, molti dei quali lavoravano con lui al Corriere. Avuta l'anticipazione del testo, il 17 ottobre, Giulia Maria Crespi e Piero Ottone non apprezzarono affatto l'intervista. Quello stesso giorno, in serata, Ottone si recò al domicilio milanese di Montanelli per comunicargli la decisione del suo licenziamento. Montanelli, però, se ne andò volontariamente, presentando le dimissioni e accompagnandole da un polemico articolo di commiato. L'articolo non fu pubblicato: il Corriere diede la notizia con un comunicato, su una colonna, il 19 ottobre.

Il giorno stesso della sua uscita dal Corriere, Montanelli ricevette un'offerta da Gianni Agnelli, che gli propose di scrivere su La Stampa. L'offerta fu accettata. Indro pubblicò il suo primo pezzo sul quotidiano torinese il 28 ottobre. Montanelli lasciò anche la sua storica rubrica sul settimanale La Domenica del Corriere per traslocare sul concorrente Oggi. Il 17 marzo 1974 preannunciò sul quotidiano torinese il suo progetto di fondare un nuovo giornale; il suo ultimo articolo su La Stampa comparve il 21 aprile. Chiamò la nuova creatura il Giornale nuovo. Nella sua «traversata nel deserto» dal Corriere della Sera al Giornale lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condivisero il nuovo clima interno al Corriere, tra i quali Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Guido Piovene, Cesare Zappulli, e intellettuali europei come Raymond Aron, Eugène Ionesco, Jean-François Revel e François Fejtő.

All'inizio del 1974 il progetto di fondazione del nuovo quotidiano era definitivo. Giunse un insperato sostegno finanziario nella Montedison (guidata all'epoca da Eugenio Cefis), che gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni. Cefis affiancò a Indro due manager di provata esperienza: Angelo Morandi, per lungo tempo direttore amministrativo al quotidiano milanese Il Giorno e Antonio Tiberi, presidente di una società del gruppo Montedison, l'Industria, attiva nel settore editoriale. Montanelli ottenne di rimanere il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.

Nello stesso anno si sposò in terze nozze con la collega Colette Rosselli (1911-1996), corsivista del settimanale Gente più nota con lo pseudonimo di «Donna Letizia». La relazione tra Montanelli e la Rosselli era già iniziata intorno al 1950 (nonostante vivessero sempre in case separate, lui a Milano e lei a Roma), ma il giornalista ottenne il divorzio da Margarethe De Colins de Tarsienne solo nel 1972, a causa della legge italiana che non lo ammetteva fino al 1970.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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