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Paolo Giovio
(✶~1483   †1552)


L'età leonina: la genesi delle Historiae e la "crisi italiana"

In relazione agli interessi storiografici, anche l'epistolario di questo periodo rivela, da parte di Giovio, una precoce «... insaziabilità documentaria e la vocazione all'utilizzo delle fonti dirette che lo caratterizzò nel corso della sua carriera».

Questo approccio agli accadimenti, attento ai dettagli, alle notizie di prima mano, alla descrizione delle personalità e dei caratteri persino ai pettegolezzi, che si riscontra fin da questi anni, è il tratto migliore e più originale dello stile gioviano, che nella maturità segnerà eminentemente le sue opere storiche così come gli scritti biografici. In esso ritroviamo il tentativo di tradurre l'ideale individualismo umanistico, come motore delle vicende umane, in un racconto di valore universale, avulso da interessi e scopi particolari come era uso all'epoca, pur non prescindendo mai da una vigile, spesso dettagliata, analisi delle reali vicende politiche e militari, anche apparentemente marginali nel contesto mondiale.

Già nel 1515, lo studioso sottopone all'attenzione del pontefice i primi capitoli delle sue Historiae. Un lavoro ambizioso, con il quale l'autore cerca di collocare le «...guerre horrende de l'Italia...» in una narrazione che le delineasse come un passaggio cruciale della storia e della civiltà, in cui traspare, già fin dalla sua genesi, l'intuizione della progressiva perdita della centralità geopolitica dell'Italia, in cui le signorie vanno trasformandosi in principati a favore di nuovi equilibri fra le potenze europee, Impero e Francia in primis. Non a caso le sue Historiae prendono l'avvio dalla guerra di successione per il regno di Napoli che causano la discesa di Carlo di Valois in Italia e l'innesco di una serie di lotte tra stati italiani per il ridisegno delle supremazie dei vari principati, appoggiati da forze straniere: alleanze che determineranno il ridimensionamento dell'importanza dei governi locali della Penisola, se non il loro assoggettamento. Un'intuizione che lo storico viene ancor più maturando già a partire dal 1515 dopo la battaglia di Marignano (Melegnano), in seguito alla quale Ercole Massimiliano Sforza, sostenuto anche da milizie svizzere, perde inaspettatamente il controllo sul Ducato di Milano a favore dei francesi di Francesco I, appoggiati dai veneziani.

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Per quanto riguarda il pontificato di Leone X Giovio porrà in luce, nella Vita a lui dedicata, come egli fosse in grado di spendere 800.000 ducati per spodestare dalla città di Urbino Francesco Maria I della Rovere, che pure in passato aveva ospitato i Medici dopo la cacciata d Firenze, per insediarvi il proprio nipote Lorenzo, signore della capitale toscana, in seguito al mancato appoggio del duca durante la battaglia di Marignano alle truppe papali; al contrario, di fronte alla ripresa dell'iniziativa militare ottomana, che tra il 1516 e il 1517, sotto Selim I, porta alla conquista di Gerusalemme e di tutti i territori del Sultanato mamelucco (Siria, Egitto e parti d'Arabia), lo stesso papa non seppe fare altro che promuovere una processione alla Basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma.

Il legame con la famiglia de' Medici: gli anni fiorentini

Nel 1517, caduto in disgrazia il cardinale Sauli, suo mecenate, Giovio si lega definitivamente alla potente famiglia fiorentina, continuando a esercitare l'arte medica, ma acquisendo sempre più notorietà come figura di emergente umanista; Leone X lo nomina cavaliere e gli assegna una pensione. In particolare, strette relazioni intrattiene con Giulio de' Medici, di cui entra al servizio.

Quest'ultimo è cugino del pontefice in carica, e destinato lui stesso al soglio di Pietro nel 1523, con il nome di Clemente VII, dopo il brevissimo regno (1522/1523) del fiammingo Adriano VI, già tutore del futuro imperatore Carlo V Al seguito del suo nuovo protettore, delegato da papa Leone X al governo di Firenze, Giovio risiede a lungo (quasi sette anni, sebbene con numerosi e prolungati intervalli), in quest'ultima città, dedicandosi alla stesura delle Historiae, senza dubbio la sua opera più importante. Sebbene apertamente coinvolto con il partito mediceo, l'umanista ha frequenti occasioni di partecipare alle riunioni che si tengono negli Orti Oricellari, vicino a Palazzo Rucellai, dove si danno convegno vecchi e nuovi esponenti della fazione contraria ai de' Medici. In esse si svolgono conversazioni culturali, rappresentazioni artistiche (tra le altre, qui viene messa in scena La Mandragola di Niccolò Machiavelli), ma, ovviamente anche accese discussioni politiche che delle idee dello stesso Machiavelli, faro dell'aristocrazia fiorentina di nostalgia repubblicana e di sentimenti avversi allo strapotere mediceo romano sulla città, fanno il loro punto di riferimento principale. A Firenze Giovio ha occasione di incontrare anche Francesco Guicciardini. Oltre a dedicarsi alle frequentazioni culturali, lo studioso non disdegna la vita nelle ville signorili e dei salotti eleganti, dove ha occasione di incontrare molte personalità di rilievo della vita politica e culturale, così come con una certa assiduità si dedica al corteggiamento femminile. Qui l'umanista inizia anche la raccolta dei primi ritratti che verranno esposti successivamente nel suo Museo comasco e si afferma come consulente di vari pittori e artisti, a cui dispensa informazioni e consigli sulla composizione di soggetti mitologici.

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Il secondo periodo leonino: l'attività diplomatica nel "mondo nuovo"

Gli anni trascorsi a Firenze, sono, interrotti da viaggi presso diverse corti italiani ed europee (anni in cui alla sua notorietà come medico si affianca via via quella di letterato) e che consentono a Giovio "di entrare in contatto con famosi personaggi del tempo e raccogliere un po' ovunque notizie e documenti" e di farsi via via sempre più apprezzare come cultore dei classici e attento indagatore delle vicende diplomatiche e storiche.

In questo periodo, che va dal 1515 al 1522, lo studioso si trova a confrontarsi con trasformazioni politiche di portata storica che sembrano far maturare compiutamente la consapevolezza del rischio concreto, già intuito, della graduale perdita dell'Italia della sua centralità geo-politica nello scacchiere europeo e nel "nuovo mondo" che viene delineandosi. Durante gli anni in cui salì al potere Carlo V si nota la ripresa dell'iniziativa militare turca, sia da parte della guerra di corsa barbaresca, sia a seguito della conquista di Belgrado da parte del sultano Sulaymān I Qanuni, nel 1521 e la presa di Rodi del 1522, del cui progetto si era già avuta notizia fin dal 1517 le cui vicende sono narrate anche da Giovio.

Giovio conobbe personalmente Antonio Pigafetta, storico e cartografo vicentino al seguito di Magellano, dopo il suo ritorno dalla prima circumnavigazione del globo. Alcuni sostengono che Giovio conobbe personalmente anche il navigatore portoghese.

Nel 1521 Leone X si convince a porre un freno al dilagare dell'influenza transalpina nel Nord Italia, che oltre al saccheggio di alcune città, rischia di destabilizzare i fragili equilibri tra i diversi potentati, con danno anche per gli interessi temporali della Chiesa e della famiglia de' Medici. Questo lo porta a stringere un accordo con Carlo V, con il quale stabilisce una comune iniziativa antifrancese. Il legame con gli oligarchi fiorentini, oltre ai profondi convincimenti personali, porta Giovio ad appoggiare la guerra promossa dal Papa contro il re Francesco I di Francia, durante lo stesso anno. Campagna militare formalmente voluta per la difesa della libertà italiana, in alleanza con la Spagna, ma in verità condotta allo scopo di reinsediare la famiglia Sforza, nella persona di Francesco II alla guida del Ducato di Milano, e riprendere il controllo delle piazzeforti perdute di Parma e Piacenza, impresa che gli riesce dopo la battaglia di Vaprio d'Adda nel 1521; non ultima ragione, per tentare di contrastare la diffusione del movimento luterano in Germania, grazie al ritrovato rapporto con l'imperatore. Nel corso del conflitto, Giovio, che accompagna Giulio de' Medici, designato come legato militare, si trova spesso sui campi di battaglia. È costretto, tra l'altro, ad assistere al sacco di Como, sua città natale, da parte delle truppe spagnole al comando del marchese di Pescara, Fernando Francesco d'Avalos, nonostante la pacifica resa delle truppe transalpine secondo gli accordi stipulati. Dopo la presa della città, anche il fratello Benedetto viene torturato. "Un prezzo duro da pagare alla linea di politica filo imperiale alla quale tentò di mantenere fedele il suo patrono Giulio de' Medici". Da questa esperienza lo storico trae un forte convincimento antibellicista, stigmatizzando le guerre fratricide, giustificandole solo nel caso in cui esse siano rivolte a combattere il nemico comune della cristianità: l'Impero ottomano.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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