Ciao

Ciao, amici lettori
Chi non sa che ciao, termine che le grammatiche classificano fra le interiezioni (parte invariabile del discorso che da sola esprime un vivace e improvviso sentimento dell'animo: paura, gioia, meraviglia, dolore, ansia, repulsione ecc.) è una forma familiare di saluto scambiato incontrandosi o accomiatandosi: ciao, come stai? Ciao, come va?
Si adopera anche a chiusura della corrispondenza fra parenti e amici: ciao, ti saluto e ti abbraccio. Si usa, inoltre, per esprimere una certa rassegnazione riguardo a una cosa definitiva e spiacevole: se ne andò con tutti soldi, e ciao! Pochi, forse, conoscono la sua origine.
Vediamo, dunque, come è nato questo "ciao". C'è da dire, innanzi tutto, che a dispetto dei detrattori dei vernacoli italiani, il ciao è un contributo che il dialetto veneziano ha dato alla lingua nazionale. Un tempo, infatti, questa particolare forma di saluto era adoperata esclusivamente nell'Italia settentrionale, nel Veneto in particolare.
Chi direbbe, però, di primo acchito, che questa parola veneziana non è altro che l'italiano schiavo? Perché proprio di schiavo si tratta. Sclavus nel tardo latino significava semplicemente slavo. In seguito per il fatto che in Germania, nell'Alto Medio Evo, alcune etnìe slave furono ridotte allo stato di servi, il termine acquisì l'accezione generica di servo, di schiavo.
Arriviamo, così, al Settecento. A Venezia — nel XVIII secolo — il termine schiavo, s'ciao in dialetto, era divenuto formula di omaggio e di riverenza: il prode cavaliere si profferiva servitore (s'ciao) nei riguardi della dama. Il signore si accomiatava dagli amici con un "vi son schiavo".
In men che non si dica s'ciao raggiunge rapidamente il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia e per adattarsi alle labbra dei parlanti — durante il cammino — perde la s iniziale divenendo semplicemente ciao e con il trascorrere del tempo perde anche il valore etimologico originario divenendo formula familiare di saluto.

06-12-2019 — Autore: Fausto Raso