Andicappare, meglio che handicappare
Sarebbe ora, a nostro modesto avviso, che si finisse di scrivere handicappato con quell'inutile orpello della h, il termine, ormai, è entrato a pieno titolo a far parte della nostra lingua, che bisogno c'è, quindi, di ricordare la provenienza barbara del vocabolo che si è preferito ai più schietti menomato, invalido? Perché si vuole adoperare, a tutti i costi, un verbo (handicappare) che non è né inglese né italiano?
Togliamo, per tanto, quel retaggio barbarico rappresentato dalla consonante h e scriviamo andicappare (e i suoi derivati), dando a questo verbo, per la verità molto brutto, una parvenza di italianità.
Soloni della lingua, non siate... andicappati mentali, accettate il fatto che la lingua va difesa, e questo è uno dei modi per dimostrarlo.
L'armadio
Numerosi amici lettori ci hanno scritto, in privato, rimproverandoci di aver trascurato — da un po' di tempo — di parlare, da questa rubrica, dell'etimologia di alcune parole di uso comune. Rimediamo subito.
Qual è quella famiglia che, oggi, non ha in casa un... armadio? Tutti abbiamo questo aggeggio e tutti sappiamo che vi si possono riporre le cose più varie, dai libri agli abiti, agli alimenti, agli utensili e via discorrendo. Non è il caso, per tanto, di soffermarci a descrivere l'oggetto che, comunemente, si indica con questo nome. Con queste noterelle
vogliamo mettere in evidenza il fatto che l'aggeggio di cui parliamo non era poi tanto comune nei secoli passati.
Era un oggetto inventato, oltre tutto, per uno scopo ben preciso: quello di tenervi celate le armi della famiglia. I nostri antenati Latini da arma (le armi) coniarono armarium, vale a dire deposito di armi. Originariamente — in lingua italiana — il termine sonava, infatti, armario; poi, per il solito processo semantico, divenne armadio.
Se prendiamo alcuni libri antichi e abbiamo la pazienza di sfogliarli troviamo la prova provata. Nel Cortegiano di Baldassarre Castiglioni, scrittore famosissimo del Quattrocento, possiamo leggere, per esempio, questa frase. «Crederei... che or che non siete alla guerra né in termine di combattere, fosse buona cosa... tutti i vostri arnesi da battaglia riporre in un armario».
Ma anche nel grande moderno Gabriele d'Annunzio possiamo leggere che «il collezionista prendeva i libri dalle file dell'armario». Ancora oggi in qualche vernacolo italiano, se non cadiamo in errore, la forma arcaica armario è in uso. Attualmente tutti adoperiamo il termine armadio dentro il quale riponiamo ogni sorta di cose non sapendo che in origine, per l'appunto, era nato per tutt'altro scopo.
La livrea
Ci sembra superfluo ricordare che nel corso dei secoli, per non dire dei millenni, l'uomo (e la donna, naturalmente) ha sempre provveduto a coprirsi il corpo con quello che noi chiamiamo abito o vestito; e più è avanzato nel grado di civiltà più questa sua copertura ha mirato a perfezionare e, perché no?, ad abbellire. L'uomo delle caverne, il così detto cavernicolo, nato nudo, naturalmente, ha subito sentito la necessità di coprirsi per difendersi dalle intemperie (il comune senso del pudore non era stato ancora scoperto).
Il vestito, quindi, nato per necessità è andato via via perfezionandosi nel corso dei secoli, fino ai tempi moderni, sia pure con alternanze di fogge secondo il gusto dei singoli e la moda, ma soprattutto come affermazione della propria personalità.
L'abito, infatti, trae il nome dal latino (sempre lui!) habitus, dal verbo habere (avere), e ha come prima accezione quella di aspetto che un uomo ha, apparenza esteriore propria di un individuo, quindi modo di comportarsi, modo di essere. Non a caso si dice che l'abito non fa il monaco (per noi lo fa, eccome! ma questo è un altro discorso).
Ma vediamo come è nato l'abito, un tempo di gran moda: la livrea. Oggi gli uomini in livrea si contano — forse — in qualche ministero o sul portone di qualche famiglia nobile ancora ancorata alla moda degli antenati. Un tempo, invece, la livrea era diffusissima e non c'era famiglia di rango che non avesse per tradizione la sua o — addirittura — non ne inventasse una sua, secondo i gusti del signore, padrone di casa.
La livrea era, insomma, l'abito-marchio di una casa: si faceva indossare ai cortigiani e a tutto il personale del palazzo (di rango, naturalmente). Molto spesso, un'occhiata alla livrea — attraverso i colori — permetteva di distinguere questa o quella famiglia illustre.
Questo abito, dunque, ebbe i suoi natali in Francia (e come poteva essere altrimenti?) e ben presto si diffuse, durante il Medio Evo, in tutte le corti d'Europa. In quel periodo storico, i sovrani, i grandi feudatari, i principi diedero il via a una bellissima tradizione: in determinati periodi dell'anno — a Natale, per esempio — il re, il padrone di casa, chiamava a sé tutti i dipendenti e faceva loro dono dell'abito ufficiale, confezionato nei colori del casato e nella foggia caratteristica richiesta da questo o quel particolare compito che essi avevano nell'ambito del palazzo.
I cortigiani, a loro volta, erano tenuti a seguire — anche se obtorto collo — la magnanimità del sovrano distribuendo, in versione più economica, abiti gratis a tutto il personale alle loro dipendenze. Questi abiti erano chiamati robes livrées, letteralmente abiti forniti (dal padrone, sottinteso). Livré è il participio passato del verbo (francese) livrer (dare, fornire, consegnare... regalare).
Con il trascorrere del tempo e attraverso l'uso parlato — come sovente accade in questioni di lingua — il popolo accorciò l'espressione e disse semplicemente livrée. Il vocabolo, oltrepassate le Alpi, è giunto a noi adattato in livrea.

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