L'atlante

Riprendiamo il viaggio alla scoperta di parole che adoperiamo quotidianamente, senza conoscerne l'origine e, di conseguenza, il significato intrinseco. Se qualcuno, per esempio, vi domandasse perché il libro che raccoglie le carte geografiche si chiama atlante, sapreste rispondere esattamente? Ecco, gentili amici lettori, una parola che è sulla bocca di tutti ma solo pochi addetti la adoperano coscientemente, conoscendone il significato. Vediamo, dunque.
Dobbiamo tornare indietro nel tempo e rispolverare le nostre conoscenze scolastiche circa la mitologia greca. L'atlante, infatti, ha origini mitologiche. Ricorderete la storia dei Titani che osarono sfidare Giove e tentare, quindi, la scalata all'Olimpo. Il capo di questi 'ribelli' era Atlas (Atlante) al quale, naturalmente, non riuscì l'ardua impresa. Il divino Giove uccise tutti i suoi avversari, tranne Atlas al quale concesse la grazia della vita condannandolo, però, a portare sulle spalle, per l'eternità, l'intero firmamento.
Dal nome di questo gigante, curvo da millenni sotto il peso del Mondo, gli uomini ne hanno fatto, nel corso dei secoli, un uso metaforico. Sul frontespizio della prima raccolta di carte geografiche, pubblicata a Roma nel XVI secolo dallo stampatore Antonio Lafreri, spiccava infatti la figura del gigante Atlas che regge il Mondo.
Ma la fortuna dell'atlante si consolidò definitivamente quando, sempre nel XVI secolo, il cartografo teutonico Gerado Mercatore pubblicò le prime carte geografiche della sua raccolta, che titolò "Atlas" (Atlante).
Da allora si cominciò a chiamare atlante qualunque grande opera che comprendesse tavole illustrate: atlante anatomico, atlante zoologico, atlante botanico, atlante astronomico. E si coniò anche l'aggettivo atlantico, cioè grande, ampio (come sono ampi i fogli aperti di una carta geografica).

01-02-2019 — Autore: Fausto Raso — permalink


Gli a capo speciali

Abbiamo notato che molte persone si trovano in difficoltà sulla divisione delle sillabe in fin di riga (o di rigo) con le parole formate con prefissi speciali: ben-, in-, mal-, cis-, dis-, pos-, trans- o tras-. Le parole così composte possono dividersi in sillaba senza tener conto del prefisso (che fa sillaba a sé) oppure considerare il prefisso parte integrante della parola.
Ci spieghiamo meglio con un esempio. Dispiacere si può dividere considerando il prefisso sillaba a sé; avremo, quindi, dis-pia-ce-re, oppure, normalmente, di-spia-ce-re. Trastevere — altro esempio — si può dividere secondo l'una o l'altra regola: Tras-te-ve-re o Tra-ste-ve-re.
Consigliamo vivamente, a coloro che non sono in grado di distinguere con assoluta certezza i prefissi componenti, di attenersi — nell'andare a capo — alla normale divisione sillabica.
Eviteranno, in questo modo, di incorrere in spiacevoli strafalcioni. In caso di dubbio si può consultare una buona grammatica dove, nel sillabo, sono riportati tutti gli argomenti trattati, messi anche in ordine alfabetico.

31-01-2019 — Autore: Fausto Raso — permalink


Fare le scarpe

Numerosi amici ci hanno chiesto di spiegare il significato e l'origine della locuzione che avete appena letto. Quest'espressione, notissima negli ambienti di lavoro, significa danneggiare qualcuno in modo subdolo, riferendo ai superiori le presunte malefatte — a insaputa della vittima, naturalmente, e fingendosi amico — allo scopo di prendergli il posto e arrivare, così, 'velocemente', alla carica tanto ambita.
L'origine del modo di dire non è molto chiara. Alcuni danno al verbo fare il significato gergale di rubare: il malfattore, approfittando della fiducia della vittima, che lo ritiene amico, le sfila le scarpe mentre dorme.
Italo Marighelli invece, nel suo Parole della naia, dà questa spiegazione: «Chi muore lascia le scarpe a chi resta, così si è diffuso fra i soldati del primo Novecento il lasciare le scarpe per dire morire in guerra, dove uno è portato anche ad anticiparsi l'eredità scalzando il vivo. E di qui sarà arrivato quel far (come togliere) le scarpe al prossimo, ossia superare (qualcuno) in carriera mettendolo praticamente nell'impossibilità di percorrere la strada della competizione gerarchica: far le scarpe a uno — nota infatti il Lapucci fra i modi di dire italiani del nostro secolo — (cioè) dare cattive referenze di uno, riferirne ai suoi superiori, a sua insaputa, le malefatte in modo da comprometterne il prestigio, ma è espressione che non persuade semanticamente e trova ostacoli d'ordine cronologico».

30-01-2019 — Autore: Fausto Raso — permalink