Metamorfosi linguistiche
Tutti sanno (o dovrebbero sapere) che i mutamenti all'interno di una lingua sono numerosi e rapidissimi finché questa è solo parlata; diventano, invece, piú rari e piú lenti — e forse pochi lo sanno - allorché comincia a essere adoperata per la scrittura di opere letterarie in quanto la forma scritta è sempre un fattore di stabilità: gli scrittori sono piú 'conservatori' e meno esposti alle influenze esterne e agli 'umori' momentanei dei 'progressisti', cioè dei parlanti i quali sono sempre pronti a inventare e a improvvisare alla bisogna la loro lingua momento per momento.
Gli scrittori, insomma, al contrario del popolo, prima di accogliere nel loro linguaggio un vocabolo nuovo 'ci pensano sú'. La lingua, però — si sa — è in continua evoluzione e gli scrittori, 'obtorto collo', devono sottostare a questo dato di fatto.
Il nostro idioma, dunque, raggiunse l'assetto stabile di lingua scritta tra il XIII e il XIV secolo, quando si affermarono tre grandi scrittori toscani: Dante, Boccaccio e Petrarca. Da allora, la lingua del popolo parlata in Toscana, particolarmente nella città di Firenze, fu accettata — non senza contrasti e dispute che si trascinarono per secoli — come l'unica vera lingua nazionale. Un dialetto, insomma, grazie agli scrittori su menzionati, assurse a lingua adoperata in tutto lo Stivale.
Occorre dire, però, che la stabilità di una lingua, anche quando viene scritta, è sempre relativa e a questa 'legge' non è sfuggito l'italico idioma che, in oltre otto secoli di vita, ha subito numerose metamorfosi di cui ci rendiamo conto leggendo le opere degli scrittori antichi e moderni.
Queste metamorfosi continuano ancora oggi, perché i parlanti subiscono le influenze della moda e degli avvenimenti: in questi ultimi tempi, con lo sviluppo vorticoso dei massinforma (mezzi di comunicazione di massa), le mutazioni si sono fatte piú frequenti. Queste metamorfosi riguardano, particolarmente, la morfologia, il lessico, la sintassi. Da quando è nata la lingua italiana a oggi, insomma, questi mutamenti sono sotto gli occhi di tutti.
Poiché l'argomento è molto vasto ci occuperemo — sia pure per sommi capi — solo dei mutamenti che si sono avuti nel lessico. Con questo termine si indica l'insieme di vocaboli antichi e recenti che costituiscono una lingua e questo 'patrimonio linguistico' viene continuamente 'avvicendato' per l'introduzione di parole nuove, per la morte di altre (parole in disuso) e per il cambiamento di significato di altre ancora.
Vediamo, sommariamente, questi singoli fenomeni linguistici o metamorfosi linguistiche:
1) Nascita dei vocaboli.
Molte parole entrano nella nostra lingua, cioè nel nostro lessico, per l'influenza delle lingue straniere o per la necessità di inventare nuovi termini in seguito a scoperte scientifiche o a nuove istituzioni come, per esempio, la 'radio', entrata nella lingua quando fu inventato l'apparecchio per la trasmissione e la ricezione dei suoni attraverso lo spazio; il 'caffè', accolto nel nostro idioma nel secolo XVII, quando venne introdotto l'uso di questa bevanda, o il 'socialismo', il cui ingresso nel nostro patrimonio linguistico avvenne quando furono elaborati i primi concetti dell'ideologia e cominciarono le prime lotte della classe operaia;
2) morte di parole (termini in disuso).
Molte parole cadono in disuso in quanto non piú necessarie o soppiantate da altre che hanno avuto maggior fortuna. Vediamone alcune: 'fantesca', 'sirocchia' (soppiantata da 'sorella'), 'messere' ('signore' ha avuto la meglio), 'speme' (speranza), 'dottanza', sostantivo in uso nel Trecento per 'timore', 'paura', 'allotta' ('allora' ha avuto il sopravvento);
3) cambiamenti di significato.
Molti termini cambiano di significato perché mutano le istituzioni e i costumi o per cause che sfuggono agli stessi studiosi di fenomeni linguistici; tra queste abbiamo: 'frate', che in origine significava 'fratello', poi mutò il suo significato in appartenente a una confraternita religiosa, 'pelago', che originariamente significava 'mare', come in latino, ma oggi è adoperato solo in senso figurato, 'galera', indicava un tipo di imbarcazione (galea) i cui rematori erano dei condannati al carcere, prese l'accezione odierna di prigione e decadde come termine nautico.
Dare in budella
«Gentilissimo Sig. Raso, nella sua meravigliosa rubrica sul buon uso della lingua italiana tratta, di tanto in tanto, l'origine di alcuni modi dire, conosciuti e sconosciuti. Le sarei veramente grato se potesse spiegarmi il significato e l'origine dell'espressione 'Dare in budella'. La ringrazio anticipatamente e le esprimo i miei sentimenti di stima e ossequio.
Attilio V.
Taranto»
Cortese Attilio, la locuzione di cui desidera conoscere il significato e l'origine è simile a quella piú conosciuta e adoperata: menare il can per l'aia, vale a dire non concludere nulla.
Per l'origine e la spiegazione mi affido a Ludovico Passarini, il 're' dei modi di dire. «Dare in budella, trascrivo la dichiarazione che ne dà il Biscioni nel citato luogo del Malmantile (un poema burlesco, ndr). Si dà sempre in budella. Non si conchiude mai cosa di buono.
Questo proverbio si dice copertamente: fare come il cane del peducciaio; e s'intende dare in budella; che esprime discorrere assai , e conchiudere poco; ed è lo stesso che dare in trippa, in ceci, eccetera.
Perché tanto è dire dare in budella che dare in trippa; di qui è che il proverbio viene dall'apprestare spesso alla mensa una medesima vivanda, a questa vilissima, quali sono le budella (che dicono altrimenti il lampredotto , dalla similitudine della lampreda), e la Trippa o Venere delle bestie grosse ()».
Veda anche questo collegamento: Google.it - dare+in+budella
L'infiorata del fisco
«Quando mi sorprendo a recriminare per il fatto che non sono immortale, subito mi richiamo all'ordine domandandomi se mi piacerebbe davvero la prospettiva di dover compilare la denuncia delle tasse per un numero infinito di anni futuri», cosí scriveva Arnold J. Toynbee».
Parliamo, dunque, di fisco, argomento al centro dell'attenzione, in questi ultimi anni, per le varie riforme annunciate, smentite e riconfermate. Ne parliamo, ovviamente, sotto il profilo prettamente linguistico.
Il fisco, come tutti sanno, è l'«erario pubblico»: questo il significato 'scoperto'; e quello 'recondito'? Vediamo di scoprirlo insieme. Anche in questo caso occorre chiamare in causa la lingua dei nostri antenati, vale a dire il latino.
Fisco, dunque, non è altro che il latino fiscus, che significa, esattamente, «cestino», «corbello», di quelli intessuti di giunchi, di ginestre, con il manico ricurvo, per metterci dentro di tutto, dai fiori di campo alla ricotta e ai formaggi che i contadini portano in città. Questo cestino, quindi, può essere foggiato anche in forma diversa, con il coperchio e può contenere qualsivoglia cosa, anche del denaro.
Il fiscus, infatti, era la cassaforte dentro la quale i legionari romani custodivano il denaro durante le operazioni belliche; era, potremmo dire oggi, la cassa da campo del reggimento. Durante il periodo imperiale il fiscus era la cassa privata dell'imperatore, cassa che, ovviamente, non era di vimini, era chiusa a chiave e recava lo stemma dell'imperatore.
Il fiscus personale dell'imperatore si distingueva da un'altra 'cassa', l'«aerarium» (l'erario), da aes, aeris ('rame', in seguito 'moneta di rame'), che era la cassa dello Stato. Fisco ed erario, quindi, anche se in origine avevano sfumature diverse, oggi si possono considerare l'uno sinonimo dell'altro.
Da fiscus è nato il verbo confiscare, cioè 'mettere nel fisco', mettere nel cestino; in seguito il sostantivo 'confisca' che è una «misura di sicurezza consistente nell'avocazione allo Stato di cose usate per commettere un reato o provenienti dallo stesso».

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