Dare in budella
«Gentilissimo Sig. Raso, nella sua meravigliosa rubrica sul buon uso della lingua italiana tratta, di tanto in tanto, l'origine di alcuni modi dire, conosciuti e sconosciuti. Le sarei veramente grato se potesse spiegarmi il significato e l'origine dell'espressione 'Dare in budella'. La ringrazio anticipatamente e le esprimo i miei sentimenti di stima e ossequio.
Attilio V.
Taranto»
Cortese Attilio, la locuzione di cui desidera conoscere il significato e l'origine è simile a quella piú conosciuta e adoperata: menare il can per l'aia, vale a dire non concludere nulla.
Per l'origine e la spiegazione mi affido a Ludovico Passarini, il 're' dei modi di dire. «Dare in budella, trascrivo la dichiarazione che ne dà il Biscioni nel citato luogo del Malmantile (un poema burlesco, ndr). Si dà sempre in budella. Non si conchiude mai cosa di buono.
Questo proverbio si dice copertamente: fare come il cane del peducciaio; e s'intende dare in budella; che esprime discorrere assai , e conchiudere poco; ed è lo stesso che dare in trippa, in ceci, eccetera.
Perché tanto è dire dare in budella che dare in trippa; di qui è che il proverbio viene dall'apprestare spesso alla mensa una medesima vivanda, a questa vilissima, quali sono le budella (che dicono altrimenti il lampredotto , dalla similitudine della lampreda), e la Trippa o Venere delle bestie grosse ()».
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L'infiorata del fisco
«Quando mi sorprendo a recriminare per il fatto che non sono immortale, subito mi richiamo all'ordine domandandomi se mi piacerebbe davvero la prospettiva di dover compilare la denuncia delle tasse per un numero infinito di anni futuri», cosí scriveva Arnold J. Toynbee».
Parliamo, dunque, di fisco, argomento al centro dell'attenzione, in questi ultimi anni, per le varie riforme annunciate, smentite e riconfermate. Ne parliamo, ovviamente, sotto il profilo prettamente linguistico.
Il fisco, come tutti sanno, è l'«erario pubblico»: questo il significato 'scoperto'; e quello 'recondito'? Vediamo di scoprirlo insieme. Anche in questo caso occorre chiamare in causa la lingua dei nostri antenati, vale a dire il latino.
Fisco, dunque, non è altro che il latino fiscus, che significa, esattamente, «cestino», «corbello», di quelli intessuti di giunchi, di ginestre, con il manico ricurvo, per metterci dentro di tutto, dai fiori di campo alla ricotta e ai formaggi che i contadini portano in città. Questo cestino, quindi, può essere foggiato anche in forma diversa, con il coperchio e può contenere qualsivoglia cosa, anche del denaro.
Il fiscus, infatti, era la cassaforte dentro la quale i legionari romani custodivano il denaro durante le operazioni belliche; era, potremmo dire oggi, la cassa da campo del reggimento. Durante il periodo imperiale il fiscus era la cassa privata dell'imperatore, cassa che, ovviamente, non era di vimini, era chiusa a chiave e recava lo stemma dell'imperatore.
Il fiscus personale dell'imperatore si distingueva da un'altra 'cassa', l'«aerarium» (l'erario), da aes, aeris ('rame', in seguito 'moneta di rame'), che era la cassa dello Stato. Fisco ed erario, quindi, anche se in origine avevano sfumature diverse, oggi si possono considerare l'uno sinonimo dell'altro.
Da fiscus è nato il verbo confiscare, cioè 'mettere nel fisco', mettere nel cestino; in seguito il sostantivo 'confisca' che è una «misura di sicurezza consistente nell'avocazione allo Stato di cose usate per commettere un reato o provenienti dallo stesso».
Attenti ai marroni...
Il nostro viaggio attraverso parole e locuzioni di uso comune ma dal significato recondito, non sempre chiaro a tutti, fa tappa all'espressione «prendere in castagna».
A tutti è noto il significato 'scoperto' di tale modo di dire: cogliere qualcuno sul fatto, coglierlo, in modo particolare, in errore. Che cosa c'entrano, allora, le castagne? Si domanderà qualcuno. C'entrano, ma solo di nome.
Occorre sapere che fino a qualche secolo fa, l'espressione era 'prendere in marrone' perché 'marrone', derivato dal latino medievale marro, marronis significava (e significa tuttora), «errore», per l'appunto. Se qualcuno di voi, cortesi amici blogghisti, si prende la briga di consultare un buon vocabolario della lingua italiana alla voce 'marrone', oltre al frutto del castagno, leggerà anche 'errore', sia pure come termine arcaico.
Come è nata, dunque, la confusione tra l'«errore» e il «marrone» (frutto del castagno)? Secondo il Lurati si tratta di un'irradiazione sinonimica della locuzione prendere in marrone: il marrone frutto del castagno e il marrone, errore, sono parole omofone, il parlante, quindi, non poteva rendersene conto, cosí, come avviene spesso in fatto di lingua, attraverso i secoli si è affermata la versione 'popolana'.
Dal marrone medievale è stato coniato il verbo smarronare, con il significato di «sbagliare»; è formato, infatti, con 'marrone' e la 'S' detta intensiva o durativa. La medesima 'S', per intenderci, dei verbi 'sgocciolare', 'sbattere', 'scancellare' e via dicendo.
Sempre a proposito di marrone, attenti ai marroni o, se preferite, alle smarronate quando dovete usare il vocabolo marrone con l'accezione di 'colore'.
Ci capita spesse volte di leggere sulla stampa frasi del tipo: «Alla cerimonia è intervenuta la baronessa Maria Stella, indossava scarpe e guanti marroni». Ebbene, quel 'marroni' è una smarronata!
Marrone, colore simile a quello che ha il frutto del castagno, è invariabile perché non è un aggettivo ma un sostantivo. Si dirà, quindi, scarpe e guanti (del colore del) marrone. Coloro che credono che marrone, inteso come colore, sia aggettivo e di conseguenza si accordi nel genere e nel numero con il sostantivo cui si riferisce 'smarronano' di grosso.
Marrone, insomma, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è un sostantivo come lo sono 'rosa', 'viola', 'ciclamino', 'corallo', 'ocra', che restano invariati: due camicie (del color della) rosa; due calze (del color della) viola.

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