Metterci il carico da 11

Ci scrive Serafino T. da Brindisi: «Gentilissimo dott. Raso, nel ringraziarla per l'esaustiva risposta circa il gerundio del verbo “sgranchire”, mi permetto porle un altro quesito, al quale tutti i vocabolari consultati non hanno saputo dare una risposta. Perché si dice “mettere il carico da undici” quando qualcuno fa qualcosa per peggiorare una situazione già di per sé grave? Grazie in anticipo e un cordialissimo saluto».
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Cortese amico, il modo di dire da lei citato fa riferimento al gioco delle carte. Nella briscola il tre e l'asso vengono chiamati carichi. Il massimo punteggio è quello dell'asso, che vale 11 punti.
Quando la mano del gioco viene appesantita dall'asso si dice metterci il carico da 11 , cioè il massimo punteggio.
Dal gergo del gioco delle carte la locuzione è stata trasportata nel linguaggio comune con il significato di peggiorare ancora una situazione già di per sé gravosa.
Il senso di questa locuzione ci sembra intuitivo: essere ignoranti , rozzi . Si dice soprattutto di persone che, sebbene si sforzino di sembrare colte, educate ma soprattutto… raffinate, tradiscono una educazione e una cultura di base allo stato “brado”; il loro comportamento, quindi, è come quello degli uomini primitivi che vivevano nelle caverne. Costoro, insomma, nonostante il benessere e il progresso, “puzzano” ancora di… caverna.
Per quanto riguarda il vivere allo stato brado diamo la “parola” a Ottorino Pianigiani:
Etimo.it - brado
Etimo.it - bravo

25-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Alfa e beta

«Io ho un libretto nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimi altri se ne può formare una perfettissima idea, e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà bene accoppiare e ordinare questa o quella vocale con quelle consonanti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a tutt'i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l'accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell'altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci ed insomma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che sulla tavolozza siano né occhi né penne né squame né foglie né sassi».
Così , Galileo Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Non c'è dubbio alcuno, infatti, che l'invenzione dell'alfabeto è stata la più grande rivoluzione della storia dell'essere umano: non più un segno per ogni parola (idea) ma un segno per ogni suono. Ed è altrettanto indubbio che da allora scrivere e leggere fu molto più facile di prima e che oltre alle persone così dette acculturate (sacerdoti e scribi) anche i commercianti e gli artigiani capirono che l'alfabetizzazione era di notevole importanza per la conduzione dei loro affari.
Sembra che i primi a introdurre i segni per indicare nomi e numeri siano stati i Sumeri, ma si deve ai Fenici la semplificazione dei sistemi delle prime scritture e la scelta di un segno per unico suono. Nacquero, così, quei segni che diedero vita all'alfabeto, il codice - inventato dall'uomo - più perfetto per comunicare. Da questo codice - dall'alfabeto fenicio - nacque quello greco, da questo l'etrusco, dall'etrusco il latino e da quest'ultimo il nostro.
Ma perché questo codice di comunicazione venne chiamato alfabeto e non, per esempio, emmenne? Perché, per semplicità, gli si è dato il nome delle prime lettere greche, alfa e beta, corrispondenti alle nostre A e B. Questo codice, dunque, è il complesso di tutte le lettere di una lingua disposte secondo un ordine convenzionale e non modificabile. Questo ordine immutato ci permette, infatti, in caso di consultazione di un vocabolario o di un elenco degli abbonati al telefono, di trovare subito il nome che cerchiamo: ciò grazie, appunto, all'ordine rigorosamente alfabetico. In un elenco telefonico, per esempio, Rossi Alessio si troverà prima di Rossi Antonio in quanto il codice, cioè l'alfabeto, stabilisce che la lettera L - nell'ordine - si trova prima della lettera N.
Per quanto attiene ai vari segni dell'alfabeto, questi si dividono in consonanti e vocali. Le prime - lo dice la stessa parola - sono quelle lettere (segni) che per emettere un suono debbono necessariamente accompagnarsi a una vocale (latino consonantes, participio presente plurale di consonare, suonare assieme, letteralmente: sonanti insieme): D (dpiù i); V (v più u) eccetera.
Le vocali, invece, sono segni o meglio lettere che hanno suono proprio, non hanno bisogno, cioè, di accompagnarsi a un altro segno (o lettera) per emettere un suono (dal latino vocales litterae, lettere che hanno voce): a, e, i, o, u.
Da notare, a proposito delle vocali, che i segni sono cinque, ma i suoni sono di più. La vocale a ha un unico suono, sempre aperto; così anche la i e la u, sempre chiuso; la e e la o, infine, hanno due suoni (aperto e chiuso). Questi suoni si simboleggiano con l'accento, chiamato accento fonico (dal greco φονή , phonè, suono).
L'accento grave () dà alle vocali un suono aperto, l'accento acuto (/) dà, invece, un suono chiuso: cioè (e aperta); perché (e chiusa). A questo proposito non capiamo perché - visto che tanto la ‘i' quanto la ‘u' hanno un unico suono chiuso - le tastiere delle macchine per scrivere e quelle dei calcolatori (personal computer) hanno le vocali suddette con l'accento grave (ì, ù). Ma tant'è.
Per concludere, non vogliamo tediarvi oltre misura, ricordiamo che le lettere dell'alfabeto possono essere rappresentate in diversi tipi di carattere: maiuscolo (latino maiusculus, un po' più grande); A, B, C ecc.; minuscolo (latino minusculus, un po' più piccolo): a, b, c; corsivo (dal latino cursivus, corrente, a mano) e a stampa.

24-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Fare o tuttofare?

Due parole due sul buon uso del verbo fare adoperato, come suol dirsi, in tutte le salse e ciò non è affatto ortodosso sotto il profilo linguistico-grammaticale.

A questo proposito è bene ricordare che l'uso di fare in sostituzione del verbo dire, per esempio, è linguisticamente accettabile soltanto quando nel corso di una narrazione o di un dialogo sottintende anche l'azione del gestire e vuole esprimere il concetto o, meglio, l'idea di un intervento repentino: m'incontra per strada, per caso e mi fa (cioè: mi dice): quando sei tornato?

È bene evitare — sempre che si voglia scrivere e parlare secondo le leggi della lingua — alcune locuzioni in cui il verbo fare è adoperato nella forma riflessiva apparente: farsi l'automobile e simili; farsi i baffi; farsi la barba; farsi i capelli; farsi la testa; farsi le unghie; farsi un dovere; farsi cattivo sangue; farsene una passione; farsene una malattia.

In tutte le espressioni sopra citate - anche se di uso comune - il verbo fare può benissimo essere sostituito con un altro più appropriato. Farsi la barba, per esempio, si può sostituire con il verbo radersi. Fare, insomma, non è un verbo... 'tuttofare'.

23-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink