Sull'uso di alcuni prefissi

Siamo certi di non tediare i nostri gentili amici se spendiamo due parole sull’uso corretto di alcuni prefissi. Il prefisso, dunque, viene dal latino praefixus (messo prima), participio passato sostantivato del verbo praefigere (prefiggere). I grammatici chiamano prefisso quelle parole, solitamente avverbi o preposizioni, che si mettono prima, appunto, di un’altra parola per modificare il significato della parola stessa. I prefissi che più frequentemente ci capita di usare sono: dis, neo, maxi, mini. Vediamo, nell’ordine, il loro corretto impiego.
C’è da dire, innanzi tutto, che contrariamente a quanto ci propina certa stampa, i prefissi debbono essere uniti alla parola che segue; non possono essere scritti staccati o, peggio, uniti alla parola con un trattino.
Dis (o de): questo prefisso viene usato, generalmente, per indicare un’idea di allontanamento, di privazione (de privativo: disattivare, rendere inattivo; disabituato, non più abituato);
Neo: anche se alcuni autorevoli testi di grammatica lo classificano tra i prefissi non è propriamente tale e se ne fa un abuso, meglio lasciarlo alle parole della storia (neocapitalismo, neoghibellino);
Maxi e mini sono dei prefissi che servono per indicare, rispettivamente, la grandezza e la piccolezza, oltre il normale, di una determinata cosa. Anche di questi oggi se ne fa un uso indiscriminato; meglio relegarli al campo della moda. Ci sono tantissime altre espressioni che rendono l’idea della grandezza e della piccolezza.
Abbiamo volutamente tralasciato il prefisso con perché ne abbiamo parlato svariate volte a proposito della contestatissima (ma correttissima) parola comproduzione.
Per concludere possiamo dire che chi nello scrivere non rispetta le norme che regolano l’uso dei prefissi prende una grandissima cantonata grammaticale. Quest’espressione trae origine — probabilmente — dai cantoni (angoli) delle case cui cozzavano i carri quando transitavano per le strade strette e contorte dei nostri pittoreschi paesini.

12-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Punto, due punti, punto e virgola

Punto, due punti, punto e virgola
Vi sono persone, anche quelle così dette acculturate, che non riescono a comprendere l’importanza della punteggiatura in uno scritto: sia esso una lettera di saluti a un amico sia esso una domanda di rimborso indirizzata all’ufficio delle Imposte.
La mancanza di punteggiatura o, peggio, l’errata collocazione dei segni d’interpunzione dà adito, il più delle volte, a un’interpretazione del nostro scritto completamente diversa dalle nostre intenzioni.
Ricordiamo, a questo proposito, la storiella — che probabilmente tutti conoscono — di frate Martino. Il religioso aveva ricevuto l’incarico, dai superiori, di scrivere sul portale della chiesa la seguente frase, in latino: Questa porta resti sempre aperta. A nessuna persona onesta sia mai chiusa in faccia.
Il poverino, però, sbagliò la collocazione del punto e l’iscrizione risultò così: Questa porta non resti mai aperta. Resti chiusa in faccia alle persone oneste. Lo “scherzetto” del punto gli costò la carriera: non divenne abate. Da questo episodio nacque il detto E per un punto Martin perse la cappa (cioè il mantello di abate).
Vediamo, quindi, sia pure per sommi capi, l’uso corretto della punteggiatura (anche per non correre il rischio di vedere respinta la nostra domanda di rimborso, a causa dell’errata punteggiatura, da uno zelante impiegato delle Imposte).

Cominciamo dal segno d’interpunzione più semplice e più comunemente adoperato: la virgola. Questo segno grafico serve per indicare tutte le pause più brevi del nostro discorso e anche per separare tutti i termini in una elencazione. È grave errore metterla tra il soggetto e il verbo e tra il verbo e i complementi.
Il punto (detto anche punto fermo) si usa per indicare una pausa più lunga della virgola e si mette dopo un frase o un periodo con senso compiuto.
Il punto e virgola indica una pausa che è una via di mezzo tra la virgola e il punto fermo e segna il distacco tra frasi o periodi che hanno una stretta relazione fra loro. È un segno che non tutti sanno adoperare a dovere; se ben collocato, invece, dà al nostro discorso una particolare efficacia espressiva.
I due punti indicano una pausa nel corpo del periodo; pausa che si fa prima di riportare risposte e parole altrui o prima di una elencazione di cose o di concetti; o quando il concetto che segue è una spiegazione o un rafforzamento di quello precedente. Si possono adoperare una volta sola per ogni frase.
Per quanto attiene al punto interrogativo e a quello esclamativo, non crediamo presentino particolari difficoltà d’impiego.

11-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Riso sardonico

Ormai era evidente, il rag. Derossi, dopo trenta anni di duro lavoro al servizio dell’Azienda, cominciava ad accusare un po’ di stanchezza e, alcune volte, dava i numeri. Se ne rese conto personalmente un impiegato quando, convocato dal Derossi per una pratica, vide il ragioniere, con un riso sardonico, puntargli una pistola ed esclamare: «Ora basta! Non sono affatto soddisfatto di lei, la sfido all’arma bianca!» Era evidente, dicevamo, che la stanchezza accumulata in oltre trent’anni di lavoro stava giocando un brutto scherzo al capufficio.
La pistola, come tutti sanno, non è un’arma bianca. Si chiamano armi bianche quelle da taglio o da punta (baionetta, sciabola, spada, pugnale) perché, secondo il linguista Ottorino Pianigiani, il loro nome deriva dal tedesco blanch che, oltre a bianco, significa luccicante, splendente, «onde il senso primitivo si conserva nell’espressione… ‘arma bianca’… congiunto a blinken: scintillare, brillare».
Quanto all’espressione dare i numeri che, come sappiamo, significa parlare a vanvera, dire delle cose che non hanno alcun senso o che non sono in logica relazione con ciò di cui si parla, deriverebbe dalla professione degli indovini che, secondo interpretazioni di avvenimenti o visioni oniriche, consiglierebbero dei numeri da giocare al lotto. Poiché, ovviamente, i numeri non sempre escono sarebbe nato questo modo di dire.
Il riso sardonico, cioè maligno, provocatorio, pieno di derisione o di sarcasmo, è provocato da un’erba velenosa, usata anche in medicina: ranunculus sceleratus. Si riteneva, anticamente, che questa pianta crescesse solo in Sardegna (donde il nome di riso sardonico) e che provocasse in chi la ingeriva improvvise contrazioni dei muscoli facciali, dando l’impressione che il malcapitato, appunto, ridesse.
E a proposito del riso, ma non sardonico, ci piace riportare un pensiero di Giacomo Leopardi: «Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire».

10-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink