Vendere alla tromba
Le televisioni commerciali hanno riscoperto e portato a conoscenza del grande pubblico l’uso delle vendite all’asta. Non c’è un’emittente privata, infatti, che non proponga al telespettatore, comodamente seduto in poltrona, l’acquisto di un tappeto persiano o di un mobile d’epoca venduto all’incanto.
Siamo sicuri, quindi, di suscitare l’interesse degli amici lettori spiegando l’origine di questa vendita chiamata, appunto, all’asta o all’incanto. Come sempre, a onta dei detrattori, dobbiamo ricorrere al padre della nostra lingua, il nobile latino: vendere sub hasta, hastae subicere.
Spiegano, in proposito, il Battisti e l’Alessio che questo modo di vendere, tratto dalla locuzione latina sub hasta vendere, deriva dall’uso romano di vendere i beni dei debitori del tesoro pubblico presso un’asta conficcata in terra, simbolo della proprietà quiritaria. In seguito si disse anche vendere alla tromba perché tali vendite si annunciavano, appunto, col suono di una tromba.
Vendere all’incanto, cioè sempre all’asta, e al miglior offerente, proviene, invece, dal tardo latino, il latino medievale in
quantum (composto con in e quantum): a quanto?, sottinteso prezzo. Il venditore stabilisce un in quantum, cioè un prezzo iniziale, colui che offre di più si aggiudica l’asta, diventa, cioè, possessore dell’oggetto posto all’incanto.
Non si confonda, per tanto, l’incanto, cioè la vendita all’asta, con l’altro incanto nell’accezione di incantesimo, magia. Quest’ultimo termine ci è stato
tramandato dal verbo latino incantare, composto di in e cantare, intensivo di canere.
Ratire
Ci scrive Ludovico L.: «Pregiatissimo Dott. Raso, ancora una volta approfitto della sua nota cortesia per un ulteriore quesito. Mi è capitata sotto gli occhi una pagina di un giornale (non so di quale anno) in cui era incartato il pesce che mia moglie aveva acquistato al mercato. Un titolo ha attirato la mia attenzione: “Il malcapitato, ratente, è stato trasportato subito in ospedale”. Che cosa significa ratente? Credo sia superfluo dirle che i vocabolari, da me consultati, non mi hanno risposto. Spero in lei. Ringraziandola anticipatamente dell’eventuale risposta, le porgo i miei più cordiali saluti. Ludovico L.»
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Cortese Ludovico, ratente è il participio presente del verbo ratire e significa rantolare. Il poverino, quindi, già rantolava quando è stato trasportato in ospedale.
Onestamente non so dirle perché il suddetto verbo sia ignorato dai vocabolari non essendo stato ancora relegato, credo, nella soffitta della lingua.
Ho fatto una piccola ricerca nella Rete, mi sembra lo attesti solo il sito Garzantilinguistica.it. Faccio il copincolla:
«[ra-tì-re] Lat. volg.
*ragitare 'muggire, strillare', con cambio di coniugazione
v. intr. [io ratisco, tu ratisci ecc. ; aus. avere]
(ant.) rantolare; emettere l'ultimo respiro».
Guardi anche questo collegamento: Google - Ratire
Non fate gli indiani...
Siamo stati sommersi dai messaggi di alcuni lettori che, spalleggiati dai vocabolari, ci hanno contestato la correttezza di comproduzione: a loro avviso la grafia corretta è coproduzione. Poiché non è nostro costume dare informazioni errate, soprattutto per ciò che concerne la Lingua, affidiamo la nostra difesa al Dizionario Linguistico Moderno del compianto glottologo Aldo Gabrielli:
«Coproduzione è brutto neologismo, specialmente del gergo cinematografico. In buon italiano il prefisso co- (per con-) si costruisce solo dinanzi a vocale: coabitazione, coincidenza, cooperare, coutente. In ogni altro caso si ha il prefisso con-, mutato anche in com- o assimilato. La forma
logica e giusta dovrebbe essere, quindi, comproduzione».
E aggiunge che la forma coproduzione anche se in uso è errata. Riteniamo doveroso, per tanto, soffermarci, ancora una volta, sul corretto uso del prefisso con-.
Detto prefisso perde la n davanti a parole che cominciano con vocale: coautore, coinquilino; muta la n in m davanti alle parole che cominciano con le consonanti b e p: combaciare, comproprietario (a proposito: perché si può dire benissimo comproprietario e non si può dire, invece, comproduttore? Non è lo stesso caso?); si assimila davanti a parole che cominciano con le consonanti l, r, m: collaboratore, correlatore, commilitone.
L’assimilazione, ricordiamolo, è un processo linguistico per cui dall’incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda, cioè si “assimila”.
Tornando alla parola incriminata, comproduzione, facciano attenzione i produttori cinematografici quando mettono sulla piazza un film in coproduzione perché — come fa notare il Gabrielli — quel copro iniziale ci richiama alla memoria altri composti come coprofagia, coprocoltura dove quel copro, derivato dal greco, sta a significare sterco. Un film in coproduzione, quindi…
Amici della carta stampata e no, non fate gli indiani, sapete benissimo di avere un gravoso compito: educare la gente anche e soprattutto sotto il profilo linguistico. Non diffondete parole errate come, per l’appunto, coproduzione.
Ah, dimenticavamo. Crediamo sia chiaro a tutti il significato dell’espressione fare l’indiano, ossia far finta di non capire. Questa locuzione è nata dalla figura dell’indigeno stereotipato, esattamente dell’abitante delle Indie occidentali, che agli occhi degli uomini europei appariva assente, sbalordito, dando la chiara impressione, appunto, di non capire.

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