Chiamarsi fuori
Tutti conosciamo il modo di dire sopra citato; pochi conoscono, forse, l’origine. Vogliamo vederla assieme? Bene. Affidiamoci al “re” dei modi di dire, Ludovico Passarini.
Per indicare accortezza abbiamo anche un altro modo usato comunemente dal volgo, preso dai giocatori di carte; ed è “chiamarsi fori o fora”. Quando il giocatore, numerando le sue carte, si avvede di essere arrivato o ch’è per giungere a compire il numero di punti, che ci vogliono per vincere, timoroso che il suo compagno ci arrivi anch’esso, contento della vittoria dice: ‘Mi chiamo fori’.
E se il compagno s’avvedesse di avere anch’esso accozzato i punti richiesti, e dicesse ‘mi chiamo fori anch’io’, il vincitore, verificato il numero dei punti, sarebbe l’altro, perché primo a proclamarsi fori, quasi fuor della meta da lui sorpassata. Da qui si vede che il “chiamarsi fori” è un atto di accortezza, e di lestezza, che non fatto a tempo fa perdere tutto il merito o il guadagno dell’opera.
Questo motto quindi trasportato ai tanti casi della vita, in cui potrebbe corrersi qualche pericolo per ignavia o trascuratezza, vale a significare: ‘Io mi metto in salvo’; ‘Mi dichiaro innocente’; ‘Non ne so nulla’; ‘non me n’impaccio’ e cose simili.
Grazie di o grazie per?
Molto spesso siamo presi dal dubbio sulla preposizione da far seguire a “grazie”, interiezione che esprime riconoscenza, ringraziamento e simili: “di” o “per”? Non c’è differenza alcuna, si possono adoperare l’una o l’altra: grazie “di” avermi risposto; grazie “per” avermi risposto.
Personalmente preferiamo la preposizione “per” perché riteniamo esprima meglio il motivo, la ragione del… ringraziamento (grazie “per”, cioè grazie “perché” mi hai risposto).
Quest’interiezione viene anche usata per mettere in evidenza l’ovvietà di un’affermazione o il carattere retorico di una domanda: Giulio è arrivato prima di te. "Grazie", abita lí vicino!
Si fa seguire dalla preposizione “a”, invece, quando “grazie” sta a significare “per merito di”, “per volontà di”, "con l'aiuto di": grazie “a” te sono stato assunto (vale a dire “per merito “ tuo, "con il tuo aiuto" sono stato assunto).
La soprano e la studente
La platea era gremitissima, tutte le più alte personalità del mondo dello spettacolo erano intervenute per acclamare la grande cantante: Car-la, Car-la. Lei, la protagonista, non era più in sé per la gioia: sarebbe stato il giorno del suo trionfo quando, sul palcoscenico, il ministro del turismo e dello spettacolo le avrebbe imposto la corona di Regina dei soprani.
Non fu così, purtroppo, l’emozione tradì Carla, che prese una stecca e il pubblico, prontissimo, trasformò la sala in un uragano di fischi. La carriera del soprano tramontò ancora prima di cominciare.
L’espressione fare una stecca o prendere una stecca, cioè non prendere una nota con la giusta intonazione, quindi stonare, deriva dal gioco del biliardo. Gli appassionati di questo gioco la conoscono bene: quando un giocatore colpisce male la palla con la stecca, questa fa un suono strano, come se si scheggiasse, donde la locuzione fare una stecca falsa.
Dal gioco del biliardo, per simpatia, l’espressione è passata al mondo della musica e si riferisce alla persona che quando canta stecca, cioè stona.
Per quanto attiene al soprano c’è da dire che questo termine è nato maschile e deve rimanere tale, anche se oggi è invalso l’uso di ritenerlo femminile (con l’avallo di certi vocabolari): la soprano Carla Brambilla. Fino ad alcuni secoli fa, alle donne era proibito calcare le scene, le parti femminili, quindi, erano affidate a uomini particolari la cui voce era di timbro più elevato in confronto alle altre; era, cioè, sopra alle altre, donde, appunto, soprano. Diremo, perciò, il soprano Carla Brambilla.
Visto che siamo in tema di femminismo, due parole sul femminile di studente. Qualche pseudolinguista sobbalzerà sulla sedia davanti a la studente. Il participio presente dei verbi è anche un aggettivo e in quanto tale prende la desinenza del genere al quale si riferisce. Poiché il participio presente dei verbi termina in -e fa parte della schiera degli aggettivi della II classe, come facile, difficile, che hanno un’unica desinenza tanto per il maschile quanto per il femminile: un problema facile, una soluzione difficile.
Studente, per tanto, considerato un “aggettivo verbale” della II classe può benissimo rimanere invariato nella forma femminile: la studente Giovanna Giovannetti.
È lo stesso caso, insomma, di cantante, nessuno direbbe la cantantessa. Perché, dunque, dobbiamo avere la studentessa?
Amiche studenti, state tranquille, non vogliamo assolutamente indurvi in un falso errore, dite e scrivete pure, se volete, studentessa, ma nessun professore, con la P maiuscola, potrà sottolineare con la fatidica matita blu la studente.

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